Le metropoli europee e americane sono la nuova, sfuggente frontiera di un confronto che interroga la coscienza dello stesso mondo occidentale, dove risentimenti e rancori legati alla globalizzazione e allo sradicamento attecchiscono su materiali ideologici che finiscono con l’assumere il carattere di lotta sacrale contro l’occidente. Un occidente percepito dunque come eticamente “degenere” e incapace di offrire, nella faticosa mediazione democratica, una prospettiva e un ordine al caos esistenziale. In questo contesto emerge la fenomenologia preoccupante di giovani sradicati, pronti a passare da “cani sciolti” della ribellione individuale a titolari di una guerra santa pulviscolare, decentrata – un passaggio facilitato dalla grancassa della rete e dei mezzi di informazione che esasperano le fonti di scontento verso l’ordine (o il disordine) costituito.
CHI SONO I FOREIGN FIGHTERS
Ma chi sono dunque i foreign fighters? Come suggerisce il nome (che si può anche tradurre con “combattenti stranieri”) essi altro non sono che militanti europei (o ad ogni modo di provenienza occidentale) che combattono all’estero tra le fila di milizie che utilizzano metodi terroristici in conflitti non convenzionali, come in Siria. In pratica, giovani che vanno a ingrossare le fila dei gruppi terroristici e delle milizie nei nuovi conflitti “asimmetrici”.
COME NASCONO
Si tratta di un fenomeno nato e sviluppatosi dapprima in Francia e in Inghilterra, e che ha coinvolto rapidamente i figli di terza e quarta generazione di immigrati musulmani tradizionalmente presenti nei due Paesi di tradizione coloniale imperiale. Già negli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo, poi ancora nello scorso decennio, i servizi antiterrorismo di mezza Europa hanno documentato con le loro indagini l’esistenza di una vasta attività di reclutamento nelle periferie delle grandi città finalizzata a “istruire” giovani mujahedin per spedirli in zone caratterizzate da conflitti interetnici e religiosi. Si è osservata la presenza di questi ragazzi già in Afghanistan, Caucaso, Nord Africa, persino in Bosnia.
I NUMERI
Ora, però, questo fenomeno sta subendo una crescita notevole, e purtroppo destinata ad accelerare. Secondo cifre rese note nel dicembre del 2013 dalla presidenza lituana del Consiglio dell’Unione europea, il numero dei foreign fighters che hanno lasciato l’Europa alla volta della Siria ammonterebbe a circa 2mila militanti. Un numero altissimo, che ha spinto l’Alleanza atlantica a dedicare un capitolo alla comprensione e al contrasto di questo fenomeno.
COME VENGONO RECLUTATI
Il reclutamento di questi combattenti di solito avviene attraverso due canali. Uno di questi, il più frequente, è quello che utilizza le moschee più radicali del Vecchio continente, grazie alla propaganda di predicatori itineranti. Un altro canale sono le carceri, dove questi ragazzi, che di solito vengono da famiglie problematiche e da un passato travagliato, vengono avvicinati in un momento di particolare sconforto o fragilità della loro esistenza. È necessario riuscire a comprendere i fattori che spingono ragazzi cresciuti in una cultura occidentale ad abbracciare con ferma volontà il jihad, la “guerra santa” islamica.
DA COSA SONO MOSSI
L’elemento scatenante che li muove è un forte senso di rivalsa verso le comunità che li ospitano. Da un lato sono cittadini diventati a tutti gli effetti di nazionalità europea, dall’altro riversano sull’occidente un sentimento di insoddisfazione e frustrazione per la loro condizione sociale, evidentemente inferiore alle loro speranze ed aspettative. Per loro diventare foreign fighters e abbracciare il fondamentalismo rappresenta un modo per provare a riscattarsi e trovare nel jihad una ragione profonda di esistenza. I numeri parlano di un aumento degli jihadisti provenienti dal Vecchio continente.
IL LORO MONITORAGGIO
Per contrastare questa tendenza, la strada da seguire è da ricercare prima di tutto in un migliore monitoraggio, ma anche nel fare “rete” in Europa, attraverso accordi con Paesi extracomunitari. Ad esempio il nostro Paese firmerà con la Turchia un accordo per reprimere congiuntamente il terrorismo e vigilare meglio sul corridoio che, passando da Ankara, porta i foreign fighters proprio in Siria. Non è un caso che l’Italia stia valutando e prendendo iniziative su questo fronte, dal momento che anche noi italiani ne siamo interessati. Nonostante i numeri ridotti
IL CASO ITALIA
«Secondo cifre rese note nel dicembre del 2013 dalla presidenza lituana del Consiglio dell’Unione europea, il numero dei foreign fighters che hanno lasciato l’Europa alla volta della Siria ammonterebbe a circa 2mila militanti» rispetto ad altri Paesi, non è possibile dire che ne siamo del tutto esenti. Un esempio su tutti è il giovane Giuliano, il ragazzo italiano convertito all’islam che, dopo l’incontro con alcuni ceceni, si unì ai ribelli siriani più estremisti di al-Nusra per combattere il regime di Bashar al Assad, perdendo la vita proprio in Siria nel giugno del 2013. Inoltre, la nostra è una nazione strategica per osteggiare il trend, in ascesa anche per l’instabilità del Nord Africa, Libia in primis. Il nostro è uno Stato di passaggio e da quelle sponde giunge ormai un’immigrazione sempre meno controllata, nella quale è facile possano infiltrarsi elementi vicini a organizzazioni terroristiche, diretti in Europa per fare proselitismo o per realizzare attentati, come quello avvenuto nel maggio scorso al museo ebraico di Bruxelles. Il fenomeno dei foreign fighters è da considerarsi quindi parte di una vera evoluzione del terrorismo.
LE NUOVE DIMENSIONI DEL TERRORISMO
Dopo l’aumento dei controlli a seguito dell’attentato alle Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, il terrorismo cui eravamo abituati e che conoscevamo ha trovato differenti e nuove dimensioni, cambiando pelle e abbandonando i grandi gesti. È come se in questi ultimi anni avesse preferito organizzarsi in franchising, in piccoli gruppi indipendenti. O peggio, adescando ragazzi, formandoli e reintroducendoli alla vita “normale” da insospettabili cittadini europei. Pronti però a colpire, come in Belgio, quando meno lo si aspetta.
Andrea Manciulli è Vicepresidente commissione Esteri della Camera e presidente della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare della Nato
Articolo pubblicato sul numero di luglio della rivista Formiche