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Lobby da ripensare su trasparenza e porte girevoli

Recentemente la Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico ha pubblicato un articolo dedicato alla disciplina della trasparenza e delle “porte girevoli” nel lobbying. Non mi è concesso scrivere se l’articolo è interessante (essendone io l’autore), né – per ragioni di lunghezza del testo, poco consono a un post su un blog – è opportuno copiarlo integralmente. Per chi volesse leggerlo in formato integrale c’è una versione disponibile su Academia.edu (QUI). Qui di seguito, invece, una versione molto “breve” dell’articolo, senza note a piè di pagina, senza riflessioni approfondite e, soprattutto, senza conclusioni. Ciascuno tragga le sue (o legga l’articolo integrale).

Centrale nel dibattito di giuristi e politologi è stato finora il tema della regolazione della rappresentanza professionale di interessi, o lobbying. Altri temi, invece, sono discussi solo incidentalmente. Tra questi ce ne sono due che meritano particolare attenzione: anzitutto, quello della trasparenza; inoltre, quello del regime di incompatibilità che gravano sui funzionari pubblici che lasciano le pubbliche amministrazioni di appartenenza per lavorare nel settore privato (in gergo, «porte girevoli», o revolving doors).

La trasparenza è il parametro di riferimento utilizzato per misurare la qualità dell’azione amministrativa e la correttezza dell’operato dei gruppi di pressione. Tuttavia, delle molteplici soluzioni sperimentate poche hanno prodotto risultati soddisfacenti dal punto di vista del monitoraggio del volume (e tipologia) di relazioni tra istituzioni e gruppi di pressione. Una delle conseguenze è stata l’aumento delle organizzazioni della società civile il cui obiettivo è controllare l’esercizio dell’attività lobbistica, superando l’inerzia degli organismi pubblici formalmente deputati alle attività di controllo.

Nel caso delle porte girevoli il problema non risiede solo nell’inerzia del legislatore. È frutto anche dell’incerta applicazione delle regole esistenti e della tensione tra le opinioni favorevoli ai vincoli alla mobilità professionale dei titolari di incarichi pubblici e quelle che, al contrario, considerano questi vincoli inopportuni o, addirittura, inutili.

Cominciamo approfondendo il primo tema, quello della trasparenza. Esistono tre ipotesi di trasparenza dell’attività lobbistica, cui corrispondono tre diverse forme di monitoraggio della stessa

La prima è, in realtà, ipotesi di «non trasparenza». Quella cioè in cui un registro, o qualsiasi altra forma di censimento, sono assenti. È, tra gli altri, il caso italiano. Fatta eccezione per il Ministero delle politiche agricole e forestali, che ha creato un suo registro (a iscrizione facoltativa) per i portatori di interesse che intendono presentare osservazioni prima dell’approvazione di decreti o regolamenti, non esiste a livello nazionale alcuna forma di regolazione — e, dunque, controllo — dell’attività dei gruppi di pressione. L’interazione tra questi ultimi e le istituzioni si svolge pertanto in assenza di qualsiasi monitoraggio o rilevazione. Non se ne conoscono i tempi, le forme e i mezzi. Le uniche, sporadiche, informazioni disponibili provengono dall’attività di ricerca svolta da enti privati o, più raramente, università. 

L’ipotesi più frequente è quella in cui un registro (o uno strumento equivalente) esiste, ma l’iscrizione dei lobbisti è facoltativa. La scelta di lasciare ai rappresentanti di interessi la libertà di registrarsi (e assoggettare così la propria attività professionale al monitoraggio del decisore pubblico) mira a instaurare un regime di garanzie separato. Chi aderisce al registro ha la possibilità di accedere in anteprima alla documentazione che accompagna una proposta di legge e di presentare le proprie osservazioni. Chi non aderisce al registro può comunque prendere visione dei documenti e partecipare alla formazione delle decisioni, ma in subordine rispetto ai soggetti iscritti.

Ultima è l’ipotesi della trasparenza integrale, o total disclosure. È la soluzione adottata dal governo degli Stati Uniti. La legge federale statunitense dal 1995 impone vincoli precisi a tutti coloro che esercitano attività di pressione presso il Congresso e le agenzie federali. Oltre al resoconto dettagliato dell’attività svolta, che deve essere fornito a cadenza semestrale, i singoli lobbisti e le aziende devono indicare l’agenda degli incontri con i decisori pubblici, le finalità delle attività di pressione e soprattutto il budget destinato ogni anno all’attività di lobbying.

Il secondo problema di ordine pratico relativo alla disciplina del lobbying riguarda il regime delle incompatibilità che vige nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni che lasciano l’amministrazione di appartenenza per lavorare nel settore privato. È un fenomeno conosciuto nella maggior parte dei sistemi democratici, con nomi diversi. Ad esempio, revolving doors nei Paesi anglosassoni, pantouflage in Francia o amakudari in Giappone. In teoria, la mobilità professionale — e il conseguente trasferimento delle competenze in possesso dei funzionari pubblici dalla sfera pubblica al settore privato — è una pratica che produce due benefici. Il primo beneficio è per la competitività del sistema, che attraverso la rotazione degli incarichi rinnova sé stesso e impedisce l’ossificazione dei corpi dell’amministrazione. Il secondo beneficio è per la crescita professionale dei singoli, che acquisiscono esperienza e migliorano le proprie conoscenze. In pratica, tuttavia, molti ordinamenti tendono a imporre limiti alle porte girevoli. I limiti sono potenzialmente validi per tutti i funzionari che lasciano la pubblica amministrazione per lavorare presso un ente privato. In realtà,  sono pensati — e applicati — in particolare per i funzionali apicali, o talora per i titolari di incarichi politici, che assumono incarichi nel settore della rappresentanza di interessi-public affairs presso grandi aziende, multinazionali, studi legali o associazioni di categoria.

Lo scopo dei limiti alle revolving doors è duplice. Il primo è impedire che eventuali conflitti di interesse distorcano la concorrenza tra imprese nel momento in cui l’ex titolare di incarico pubblico si avvale del proprio bagaglio di conoscenze e informazioni (talora riservate) per il beneficio dell’azienda per cui lavora. Il secondo risponde alla necessità di evitare il rischio che la fuga di cervelli — o brain drain — dal pubblico al privato possa influire sull’efficienza delle amministrazioni, che si vedrebbero private di figure chiave senza la possibilità di trovare sostituzioni adeguate in tempi brevi. Tuttavia, si fa notare, imporre limiti assoluti per evitare i conflitti di interesse non è possibile, sia perché una simile scelta ostacolerebbe la rigenerazione professionale, sia in ragione dei profili di legittimità costituzionale. I legislatori optano quindi per una serie di impedimenti volti a contenere — e, per quanto possibile, controllare — la mobilità pubblico-privato. Il più diffuso è quella del cd. «raffreddamento» (cooling off). Si tratta dell’imposizione di un periodo di sospensione successivo alla conclusione di un mandato pubblico. La durata della sospensione può variare sensibilmente, da pochi mesi a due o tre anni. La Francia, ad esempio, ha imposto il divieto, di soli sei mesi e per i soli membri del governo, a partire dal 1958. Negli Stati Uniti il periodo è più lungo: ventiquattro mesi. In alternativa ai limiti temporali il legislatore può introdurre l’obbligo di pubblicazione periodica dei nominativi di coloro che, avendo svolto un incarico pubblico, assumono un nuovo incarico presso un’azienda privata (è la soluzione adottata dal Regno Unito).



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