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La svolta dell’Europa in guerra contro l’Isis. Parla Arturo Parisi

Dare ai Curdi armi per combattere lo Stato Islamico, e farlo con una decisione istituzionale alla luce del sole, “significa riconoscere il nostro coinvolgimento in un conflitto che è difficile non chiamare guerra“.

A crederlo è Arturo Parisi, docente universitario e già ministro della Difesa nel governo Prodi, che in una conversazione con Formiche.net spiega perché la decisione di intervenire in Irak contro il gruppo jihadista rappresenta una svolta, seppur parziale, nelle politiche di difesa italiana ed europea.

Professore, come giudica la scelta italiana di armare le milizie curde in Iraq?

Credo che una scelta fosse inevitabile. Non potevamo far finta di niente o girarci dall’altra parte. Le notizie, e le immagini che ci arrivavano e che continuano ad arrivarci dall’Iraq, erano già da sole appelli che attendevano una risposta. Senza parlare di quelli che ci chiamavano in causa per nome come europei e come italiani a partire dai profondi legami storici e dalla vicinanza geografica e culturale. Né, proprio noi che in questo semestre abbiamo nel consesso europeo la responsabilità della prima parola potevamo lasciare ancora un volta al Regno Unito e alla Francia il compito di agire per conto di tutti.

Perché, come in altre situazioni, non si è deciso di inviare solo aiuti umanitari?

La scelta non poteva limitarsi all’invio di qualche decina di tonnellate di acqua e di biscotti, col contorno di un po’ di tende e sacchi a pelo.
Mentre anche il Papa che pure aveva esordito ricordando che rispondendo con la violenza alla violenza si va poco lontano, reagendo all’appello accorato della gerarchia della Chiesa Caldea, aveva riconosciuto il ruolo e la liceità dell’uso della forza armata nel fermare l’aggressione ingiusta.
Detto che la scelta proposta dal Governo è giusta ed obbligata, ho però paura che il suo contenuto non appaia ai più altrettanto chiaro.

Si riferisce al suo rilievo pratico o a quello politico?

Direi che la modestia del suo rilievo pratico, sul piano oggettivo e militare, ha finito per nascondere il suo ben diverso rilievo politico. L’importanza della nostra scelta non sta infatti negli armamenti che ci siamo impegnati a trasferire ai Curdi, in genere per noi inutili per quelli di provenienza nazionale o inutilizzabili per quelli di provenienza sovietica. L’importanza sta in quello che questo significa, di quello che sta a monte, e di quello che sta a valle. A monte sta la decisione di muoversi in modo coordinato come europei. Di certo in accordo con gli Stati Uniti, e in linea con pronunce dell’Onu, ma tuttavia questa volta con una iniziativa autonoma non più prodotta o parte di una iniziativa a guida americana.

Come giudica queste prove europee di collaborazione su temi abitualmente così divisivi? Sta nascendo un’Europa della Difesa?

È una novità che mentre segnala il passo fatto, dà la misura di quanto sia lontana la meta di una Europa unita sul piano della politica estera e di difesa.
Dire di un coordinamento tra Paesi europei in quanto europei non autorizza infatti ancora a parlare di una azione dell’Europa. Il giudizio comune reso ora manifesto è stato infatti anche questa volta costretto a rinviare inevitabilmente alle normative nazionali e alle capacità militari dei singoli Paesi, all’inseguimento di quelli che si erano già mossi a prescindere, e in attesa di quelli che non si sa se mai si muoveranno.
Certo il fatto che non ci siamo divisi è già da sola una buona notizia. Ma è evidente che con una Europa ridotta ancora ad una piccola Onu possiamo fare ben poco.
Se tuttavia questo piccolo passo è importante lo è ancor più per le prospettive politiche che apre, per i rischi che sono a noi di fronte, per le potenzialità, per le responsabilità che ci assumiamo come Italia e come Europa.

Quali sono i rischi di questa evoluzione?

Dare armi ai Curdi, e dargliele direttamente, ancorché nel rispetto della statualità irachena è infatti in sé comunque un riconoscimento di una loro soggettività internazionale aperto sul futuro. E dargliele esplicitamente per combattere la jihad è una scelta di campo che ci compromette nel presente.
Quello di oggi è solo un primo passo. È bene che il Paese e l’Europa ne prendano piena coscienza senza farsi illusioni preparandosi ad ogni evenienza futura. È necessario che la scelta fatta oggi metta radici e la precaria unità costruita attorno ad essa in Italia e in Europa si rafforzi e si allarghi.
Guai se dopo essersi ritrovati uniti alla partenza i Paesi europei trasformassero per strada la loro distinzione in divisione.

Che ruolo può avere l’Italia? E che atteggiamento dovrebbe assumere?

L’errore più grande che si può oggi fare è perciò quello di minimizzare la scelta nascondendo il suo grande rilievo politico potenziale dietro il suo scarso rilievo militare attuale.
In questo contesto più degli attacchi degli oppositori e dei critici temo il silenzio degli indifferenti e dei furbi.
Lungi dall’accontentarci del distratto voto agostano in Commissione, dobbiamo riprendere il discorso in campo aperto e nell’Aula parlamentare per far crescere la consapevolezza comune.
La parola può sembrare forte. Ma dare ai Curdi armi per combattere lo Stato Islamico, e farlo con una decisione istituzionale alla luce del sole, significa riconoscere il nostro coinvolgimento in un conflitto che è difficile non chiamare guerra.

Come contrastare una minaccia come l’Isis, che vede sempre più coinvolti jihadisti occidentali, i cosiddetti foreign fighters?

Isolandola in modo chirurgico senza regalargli e dare per scontata nessuna alleanza, e combattendola contemporaneamente sul piano culturale, economico-logistico, e militare. Se la jihad si è così tanto estesa è grazie alla nostra approssimazione concettuale e ai ritardi sul piano della azione. Ma per questo abbiamo bisogno di approfondire la definizione dello scontro che attraversa il Mena (Medio oriente e Nord Africa), riconoscendoci in una qualche comune teoria di medio termine, e in una strategia condivisa. Altrimenti di fronte al caos che ci circonda è inevitabile che si finisca travolti da un sentimento di impotenza. Come dimenticare la fine ingloriosa delle primavere arabe e le inqualificabili alleanze dentro la crisi siriana? Mi accontenterei che anche noi non finissimo per contribuire ad alimentare il fuoco che vogliamo spegnere: confondendo cose che vanno distinte e unificandone altre che sono divise, invece di allargare e unire il fronte contrario al jiadhismo,
Quanto possiamo andare avanti con questa sequenza di conflitti combattuti assieme ai nemici di domani contro quelli di oggi? Basta ripassarci gli ultimi due decenni di confitti che hanno interessato il Medio Oriente e il Nord Africa.
È vero che gli stati di stabile hanno solo gli interessi, ma non altrettanto gli amici e i nemici. Ma lo stesso non si può dire per le nazioni, che sono il prodotto di processi più lunghi.

Il segretario alla Difesa americano Chuck Hagel ha annunciato che gli Usa rivedranno al rialzo il loro bilancio per la difesa in virtù della tante minacce incombenti. Perché l’Europa continua invece a tagliare? Come arginare questa deriva di cui si discuterà probabilmente al prossimo vertice Nato in Galles il 4 e 5 settembre?

Appunto perché troppi cittadini pensano che non ci sono minacce incombenti al bene comune, e troppi hanno dimenticato il valore dei beni comuni che possono essere minacciati. Mentre ognuno aumenta da solo le spese per la difesa di porte e finestre del suo appartamento, diminuisce la preoccupazione comune per il portone del condominio.


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