Mille furono gli uomini che Giuseppe Garibaldi volle arruolare per la storica spedizione risorgimentale nel Sud, che fu strappato ai Borboni per essere consegnato ai Savoia, e quindi all’Italia.
Mille fu il nome che si assegnò dopo più di cent’anni un movimento di anticomunisti cattolici e laici per contrastare quel tentativo di compromesso storico costituito nel 1976 dall’intesa fra la Dc e il Pci, dopo un turno di elezioni anticipate conclusosi – disse Aldo Moro – non con uno ma con due vincitori, destinati perciò o a paralizzarsi o ad accordarsi, quanto meno per il tempo necessario a preparare una seconda e più decisiva competizione nelle urne.
Nonostante i mille, che nella Dc tifavano in particolare per le resistenze di Mario Segni, Mariotto per gli amici, la spuntò Moro ottenendo prima l’astensione e poi la fiducia dei comunisti ad un governo di soli democristiani presieduto da Giulio Andreotti. Ma rimettendoci alla fine la vita, perché quella maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale oppose una linea invalicabile di fermezza agli appelli alla trattativa e alla salvezza da lui lanciati dopo essere stato sequestrato dalle Brigate rosse, fra il sangue dei suoi agenti di scorta.
Mille dovrebbero essere alla fine di questo mese, salvo ripensamenti o rinvii, gli uomini chiamati a raccolta da Gianfranco Fini ad Arezzo, assai più modestamente o comicamente per cercare di risollevarsi dalla polvere in cui cadde nelle elezioni del 2013, mancando il ritorno in Parlamento con Mario Monti dopo la rottura con Silvio Berlusconi.
Mille, non di meno e non di più, sono invece i giorni assegnatisi da Matteo Renzi per realizzare “passo dopo passo” il suo programma di riforme, voluto per “cambiare verso” all’Italia, cercare di cambiarlo anche all’Europa e allontanare lo spettro delle elezioni anticipate già nella primavera prossima, che pure sembra ogni tanto affascinarlo, nonostante le smentite ufficiali. Il sogno è di replicare o addirittura migliorare quel quasi 41 per cento di voti raccolti dal Pd nelle elezioni, per Renzi purtroppo soltanto europee, dello scorso mese di maggio.
Anche i mille giorni del presidente del Consiglio tuttavia, scadendo nel maggio del 2017, portano in corpo il seme di un ricorso anticipato alle urne, cui gli italiani dovrebbero essere chiamati in via ordinaria solo nel 2018, cinque anni dopo il rinnovo sfortunato delle Camere nel 2013. In occasione del quale l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani mancò per un soffio al Senato la vittoria del cosiddetto centrosinistra, che riteneva imprudentemente di avere in tasca, Berlusconi mancò per un altro soffio la rivincita dalla rovinosa caduta del 2011, Monti finì spiaggiato con la Scelta Civica improvvisata a Palazzo Chigi e Beppe Grillo sfiorò da solo lo scudetto montandosi rovinosamente la testa.
Certo, con questi precedenti, da cui scaturirono le suppliche a Giorgio Napolitano perché accettasse la rielezione emergenziale a presidente della Repubblica, inutilmente ricercata dai suoi predecessori, e poi la breve e sfortunata esperienza del governo delle “larghe intese” affidato ad Enrico Letta, i mille giorni proposti da Renzi, dopo i quasi duecento già trascorsi da lui a Palazzo Chigi, sarebbero di per sé un segnale di stabilità. Non sufficiente tuttavia a tradursi in effettiva e positiva governabilità se Renzi continuasse più ad annunciare che a fare, più a produrre titoli che contenuti di riforme, o a gestirne di troppo pasticciate come quella del Senato, più ad aggirare che a saltare gli ostacoli, fuori e dentro il suo partito, più a rottamare pregiudizialmente le esperienze altrui che a costruire una vera, nuova e preparata classe dirigente, fatta di competenti e non solo di amici e coetanei, più a mangiare gelati che a salvare “il pranzo del Paese che sta bruciando”, come scrive Mario Sechi sul Foglio.
La oggettiva mancanza di alternative, visti lo stato del centrodestra e i brividi di paura che continuano a procurare i grillini, potrebbe aiutare Renzi a sopravvivere, non per forza a governare davvero. E questo sarebbe per il Paese un guaio enorme. Un guaio irreparabile.