I tempi, ha spiegato il vice-ministro dell’Economia Enrico Morando, non sono stati ancora fissati. Ma il percorso è ormai incardinato. Entro il 2014 lo Stato metterà sul mercato il 5 per cento di Enel e il 4,3 per cento di Eni detenuto dal Tesoro. Il guadagno previsto ammonta a circa 5 miliardi di euro.
Il progetto messo a punto dal governo per ridurre lo stock del debito pubblico, favorire la concorrenza in comparti economici strategici e attrarre investimenti produttivi sta incontrando l’ostilità di un eterogeneo fronte politico. Nel quale spicca il parlamentare ed esponente della sinistra interna del Partito democratico Stefano Fassina. A Formiche.net l’ex “giovane turco” illustra le ragioni del dissenso.
Come giudica l’intenzione dell’esecutivo di alienare limitate partecipazioni del Tesoro in Eni ed Enel?
Non sono ostile in via pregiudiziale a processi di privatizzazione e all’intervento di capitali privati nel tessuto produttivo. Ma vanno chiariti innanzitutto gli obiettivi della cessione. È necessario fare cassa? E per quale ragione?
Lei quale risposta si è dato?
Gli ipotizzati 5 miliardi di euro derivanti dalla vendita delle quote sarebbero irrilevanti per la sostenibilità del debito pubblico. E porterebbero a un ulteriore indebolimento della presenza pubblica nell’economia. Per questa ragione ho promosso a luglio, con un gruppo di parlamentari, una mozione in cui chiediamo al governo di condividere con le Camere un’accurata analisi finanziaria degli interventi relativi ad aziende che producono utili preziosi per il bilancio dello Stato.
Quali sono gli obiettivi della vostra iniziativa?
Vogliamo valutare l’impatto di eventuali privatizzazioni nel terreno proprietario – scendendo al 25 per cento dell’azionariato lo Stato perderebbe il controllo delle aziende – e occupazionale. E verificare se si tratta realmente di un buon affare, visti i minori dividendi previsti. Terzo punto altrettanto rilevante: anziché destinare i proventi di tali operazioni a una velleitaria riduzione del debito, puntiamo a convogliare tali risorse verso investimenti produttivi per riattivare il Pil.
La vendita delle quote in Eni ed Enel ricorda le privatizzazioni anni Novanta?
Temo il ripetersi di iniziative improntate allo scopo di fare cassa. E che si sono rivelate fallimentari. Se questa è la linea ispiratrice resto nettamente contrario.
È contrario anche all’ingresso del colosso pubblico cinese State Grid nel 35 per cento di CDP Reti?
No. L’operazione è stata compiuta mantenendo il controllo delle reti energetiche in mano a Cassa depositi e prestiti. Ovvero nelle mani dello Stato italiano. I capitali stranieri sono benvenuti quando vi è una politica industriale che contempli una presenza pubblica nevralgica nei grandi comparti industriali.
Il confronto governo-Parlamento deve riguardare anche la cessione, per ora congelata, del 40 per cento di Poste Italiane?
Certo. Mi pare al contrario che prevalga la fretta nel trasmettere ai mercati un segnale ben preciso: dimostrare che siamo ligi ai doveri del pensiero unico pro-austerità. Così stiamo bruciando enormi opportunità per un tessuto produttivo che ha bisogno di aziende forti e grandi.
È possibile creare in Parlamento un fronte politico trasversale ed efficace contro il piano messo in cantiere dall’esecutivo?
Sì, se le forze politiche vogliono evitare di compromettere interessi strategici del nostro paese per una manciata di miliardi a breve termine. E spero che il governo accolga le nostre richieste.
Cosa è necessario fare per un risanamento permanente dei conti pubblici?
Nell’attuale scenario di stagnazione e deflazione, il debito pubblico è divenuto intollerabile. Non vi è alternativa al far ripartire inflazione e crescita. Prevedendo una gestione a livello di Euro-zona tramite interventi condivisi di “ristrutturazione morbida” dei conti pubblici.
La convince il progetto di Fondo di Redenzione Europeo per condividere e risanare i debiti sovrani tramite Euro Union Bond garantiti dal patrimonio industriale, valutario e fiscale nazionale?
Non penso funzionerebbe. Perché, se dedicassimo le risorse reali appartenenti agli Stati membri per garantire soltanto una parte del passivo di bilancio, resteremmo scoperti e vulnerabili sulla componente che rientra nel vincolo del 60 per cento tra debito e PIL.
Su quali misure è necessario puntare allora?
È urgente un intervento di acquisto da parte della Bce di quote dei debiti sovrani di tutti i Paesi aderenti all’Euro-zona, in un quadro di impegni precisi e condivisi di finanza pubblica. Puntare sulla strategia degli avanzi primari non ha portato i risultati sperati.
Lei crede all’esistenza di un accordo tra Mario Draghi e Matteo Renzi per un’immissione di liquidità da parte della BCE in cambio di riforme strutturali?
Non bisogna cadere nella trappola dello scambio. La Banca centrale europea deve adempiere al proprio mandato, senza negoziare nulla con i governi nazionali. Attraverso gli interventi di acquisizione di titoli dei debiti sovrani, la Bce ha l’obbligo statutario di raggiungere un tasso di inflazione del 2 per cento. È l’unica misura immediata per interrompere la spirale drammatica di deflazione e recessione.
Condivide l’idea di una moratoria del Fiscal Compact?
Sì. Il Fiscal Compact è stato rottamato dal circuito di deflazione e stagnazione produttiva. E si è rivelato tecnicamente inapplicabile, smentendo le previsioni di un ritmo di crescita annua al 2 per cento. Austerità cieca, svalutazione del lavoro e politica mercantilista hanno fatto crollare PIL e occupazione. Bisogna alimentare la domanda interna superando tabù consolidati.