Lo sfondamento dell’assedio di Amerli è un buon paradigma del conflitto in corso in Iraq (che in realtà si estende e tenderà ad estendersi in un più ampio areale siro-iracheno, quello cioè controllato dal Califfato).
L’assedio alla città turcomanna sciita, a pochi chilometri a sud di Kirkuk durava da circa due mesi: dentro, intrappolate dalla morsa del Califfo, quasi 20 mila persone, a corto di acqua, cibo, elettricità.
L’offensiva che ha rotto il muro dell’IS è stata probabilmente il più importante successo militare delle forze irachene (insieme a quello alla diga di Mosul) e, come detto, il più rappresentativo. Contro i soldati dello Stato Islamico è stata schierata l’intera “coalizione” operante sul campo. Le forze speciali irachene, hanno lavorato fianco a fianco con i curdi (locali, e quelli del Pkk, YPG, Pjak), con le milizie sciite (sembra che i primi ad entrare siano stati gli uomini della Kataeb Hezbollah) e gli iraniani (probabilmente elementi della Quds Force): tutti coperti dall’alto dagli americani. Paradigma perfetto di un’alleanza “inusuale”, che sta combattendo una forza dalle dimensioni – e dall’organizzazione – altrettanto inusuali.
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Ma l’offensiva su Amerli è rappresentativa di quello che sta succedendo in Iraq, anche per un’altra vicenda collegata. Lunedì primo settembre, il giorno dopo la riconquista governativa della cittadina centro settentrionale (prossima al confine con l’Iran), l’ex premier Nuri al-Maliki ha celebrato la vittoria come un trionfo sciita. Non solo ha “dimenticato” di citare il fondamentale ruolo dei curdi e della copertura aerea americana (che di certo sciiti non sono), ma l’ha paragonato alla battaglia di Karbala. In breve e tagliato un po’ con l’accetta: a Karbala il 10 ottobre 680 si consumò il massacro del nipote del profeta Maometto (nato dalla figlia Fatima) al-Ḥusayn e della sua famiglia, ad opera delle truppe omayyadi fedeli al Califfo. L’evento è considerato all’origine della divisione tra sciiti e sunniti, e soprattutto ha un forte significato simbolico: rappresenta, per gli sciiti, il dovere della jihad contro le ingiustizie (sunnite).
Dunque il discorso di Maliki è pericolosissimo, dato che la presenza stessa dell’IS è collegata al settarismo radicato nel paese. Parole che non solo allontanano ancora di più il supporto dei clan sunniti locali – fondamentale per battere l’IS -, ma che rischiano di fornire ulteriori e rischiosi pretesti jihadisti. Maliki ha parlato come se fosse ancora in carica – in realtà le sue dimissioni “forzate” hanno avuto seguito nel governo Abadi -, ma soprattutto ha parlato con le spalle coperte dai mullah iraniani. Entrambi sembrano tutt’altro che partner affidabili per l’Occidente – va ricordato che se la situazione è arrivata a tale parossismo, la colpa è soprattutto nelle politiche settarie spinte da Maliki, e avallate da Teheran: intolleranti e radicalizzati tanto quanto l’IS, ma sul fronte opposto.
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Gli Stati Uniti si trovano su un terreno molto scivoloso, e lasciati soli dagli alleati (ad Amerli non c’erano le “solite spalle” americane). Da un lato il Califfo con le sue atrocità. Dall’altro i “nuovi partner” locali, composti oltre che dai curdi (relativamente più affidabili) dal blocco sciita. Iran, Siria e milizie religiose, non sono di certo soggetti irreprensibili. Per questo la Casa Bianca è molto indecisa e si muove con circospezione, perché «non è possibile diventare l’aviazione di Baghdad», pensiero più volte ripetuto anni fa da David Petraeus – uno che, nonostante tutto, era riuscito a dare una sistemata all’Iraq.
Né, tanto meno, andare a rinfoltire quella di Assad. Il gioco del governo siriano è ormai abbastanza chiaro: proporsi come alleati (almeno temporanei) degli USA, cercando di “tirarli dentro” al proprio conflitto.
Sembra in queste ore, che i comandanti della base militare di Deir Ezzor abbiano abbandonato i posti, lasciando i soldati in balia dell’imminente offensiva dello Stato Islamico. Un comportamento simile – non certo nuovo in Medio Oriente – si era registrato qualche giorno fa a Tabqa, dove era stato dato quasi volontariamente il via libera all’IS, che aveva conquistato la base aerea e trucidato i (pochi) soldati rimasti. Decisione che aveva prodotto una strascico di polemiche in Siria, con molti lealisti scontenti della strategia voluta da Assad: ma il regime sa che deve rinunciare a qualche base “lontana” su al nord, per poter fare blocco nelle aree meridionali. Oltretutto, perdendo pezzi importanti del proprio arsenale, Assad ingrandisce la potenza dell’IS amplificandone la minaccia, così da poter far leva sulla necessità del coinvolgimento americano. Anche se per il momento, Obama sembra abbastanza scettico sulla possibilità di coordinare gli eventuali interventi in Siria con il governo locale – ma, più o meno formalmente, si troverà costretto a farlo.
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C’è però da dire che per gli Stati Uniti, e per il mondo intero, questa strana coalizione resta al momento l’unica alternativa possibile per contrastare il Califfato. Il disimpegno degli alleati occidentali è evidente: non bastano le armi fornite ai curdi, non basta qualche “advisor” messo a terra da inglesi e tedeschi, così come i fondamentali aiuti umanitari messi a disposizione da varie nazioni, non sono mezzi di contrasto al Califfato.
Emerge quello che Gideon Rachman ha scritto sul Financial Times: «la più grande debolezza del sistema di sicurezza globale, non è la mancanza di volontà di Washington, ma l’impotenza degli alleati regionali dell’America» e si potrebbe aggiungere non solo regionali. L’amministrazione Obama non è certo libera da colpe – spesso il Prez si è dimostrato debole e indeciso – ma è indubbio che “il mondo” in generale, e soprattutto quello occidentale legato da alleanze con gli Stati Uniti, ha fatto esclusivo affidamento sull’America come garanzia della propria sicurezza, Per anni.
Ricorda Rachman che è lo stesso modello di spesa Nato a sottolineare questa tendenza: gli USA garantiscono il 75% degli investimenti militari. E pure sul lato “non militare” dei provvedimenti, vale lo stesso discorso: gli Stati Uniti sono stati il traino per la sanzioni contro la Russia, mentre l’UE ha dovuto affrontare discussioni (e incoerenze) interne prima di agire con decisione.
Lo stesso, certamente, vale per i partner mediorientali. L’Arabia Saudita, spesso contraddittoria rispetto al mondo del jihadismo sunnita, è armata con tecnologie d’avanguardia fornite dagli americani, eppure non ha mosso un dito contro l’IS – se non quando si è trattato di spostare soldati a protezione dei propri confini. E così altri partner locali. In quest’ottica, appare più chiaro come gli Stati Uniti abbiano “visto”, ma lasciato correre, sull’intervento aereo di Emirati Arabi Uniti e Egitto in Libia: un aiuto in fondo, anche se non richiesto e fatto “di testa propria”, che ha “disimpegnato” (un po’, anzi pochino: vedi la presa dell’ambasciata da parte delle milizie di “Alba della Libia”) gli USA su un teatro spigoloso.
Con la crisi economica che chiede riduzione sulle spese e con la stanchezza americane alle guerre, la sola soluzione possibile per il mantenimento della stabilità globale è la cooperazione. Vera e funzionale, dove ognuno si impegna, senza delegare un’entità esclusiva. Obama non è un fulmine, ma di certo l’America non può essere la “polizia del mondo” per sempre. Per gli alleati americani è arrivato il momento di prendersi le proprie responsabilità.
Si comincia dal vertice Nato di giovedì in Galles.