Costretto dai contrasti interni al suo partito –per esempio, in materia di mercato del lavoro e licenziamenti- ad una certa reticenza sui contenuti delle riforme, che pure a parole si è impegnato a portare avanti senza “mollare di mezzo centimetro”, Matteo Renzi ha cercato di nascondere questa debolezza alla festa nazionale dell’Unità avvolgendosi nella bandiera di una sinistra europea salvifica. Che dovrebbe aiutarlo, con quello ch’egli stesso ha voluto chiamare “il patto del tortellino”, stretto al ristorante con gli ospiti giunti dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania e dall’Olanda, a cambiare l’Europa. Cioè a farla uscire dalla recessione e persino dalla deflazione prodotte dalla visione “ragionieristica” dell’Unione, di marca tedesca.
Peccato, per Renzi, che il quadro della sinistra del vecchio continente sia molto meno roseo e unitario di quello che lui avrebbe voluto con la coraggiosa decisione di portare a tutti gli effetti il Pd nel Partito Socialista Europeo. Decisione coraggiosa – bisogna riconoscerlo – perché presa da un segretario di provenienza democristiana, ed evitata dai suoi predecessori di provenienza comunista per il timore di sfasciare il partito realizzatosi nel 2007 con la confluenza di ciò che restava del Pci e della sinistra scudocrociata.
Al Pse non è mancato soltanto il successo conseguito invece da Renzi in Italia, e che forse lui sognava nelle elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, dove il primato è rimasto al Partito Popolare della cancelliera Angela Merkel. Che ha pertanto imposto il suo candidato alla presidenza della nuova Commissione dell’Unione. E’ mancata e manca al Pse anche una sintonia reale, essendo soltanto fittizia quella pubblicamente ostentata negli incontri ufficiali e nelle fotografie di circostanza, comprese quelle scattate a Bologna a Renzi e ai suoi ospiti, tutti allegramente in maniche di camicia bianca.
Il premier francese Manuel Valls, per esempio, è arrivato all’appuntamento emiliano dopo avere promosso o subìto – poco importa – un rimpasto di governo studiato apposta a Parigi per allontanare soprattutto un responsabile dell’Economia espostosi più di altri nella contestazione della politica reclamata nell’Unione Europea dalla Merkel.
Se i socialisti francesi piangono, per giunta con un presidente della Repubblica precipitato nei sondaggi anche a causa delle proprie disavventure di letto, quelli tedeschi certamente non ridono. Il vice cancelliere socialista Sigmar Gabriel si è tenuto ben lontano da Bologna, e dal Pd, intenzionato evidentemente a tenere ben stretto il suo rapporto di alleanza e collaborazione con la Merkel. E il suo connazionale Achim Post, segretario del Pse, si è onestamente presentato alla festa dell’Unità avvertendo i compagni italiani che “in Germania”, e non solo nel partito della cancelliera, “la parola flessibilità” tanto cara a Renzi “è vissuta come il diavolo”. Non a caso, del resto, dopo averla condivisa e adoperata pure lui in pubblico, il presidente della Banca Centrale Europea, l’italiano Mario Draghi, ha dovuto recentemente affrettarsi a telefonare alla Merkel per chiarirsi. Cioè, per rasserenarla, senza aspettare di essere chiamato.
In questa situazione non c’è festa del Pd e patto, o semplicemente piatto, del tortellino che possa dare a Renzi un vero, reale quadro di riferimento alla sinistra europea per aiutarlo a “guidare”, come gli è addirittura scappato di dire, il cambiamento dell’Unione, e non solo dell’Italia. L’ottimismo aiuta, certo, ma non basta ad assicurare la vittoria conclusiva, come ha potuto sperimentare politicamente sul proprio versante Silvio Berlusconi. Che peraltro potrebbe forse aiutare Renzi più della fantomatica unità della sinistra europea a fronteggiare l’avversione tedesca alla pur necessaria “flessibilità” dei vincoli dell’Unione. Ma un simile aiuto, in aggiunta a quello cercato e ottenuto fra lamenti e proteste sulla strada delle riforme istituzionali, potrebbe costare carissimo a Renzi in un partito come il suo, vissuto troppo a lungo di antiberlusconismo.
Francesco Damato