Il piano annunciato ieri dal presidente americano Barack Obama per contrastare i jihadisti dell’Isis divide gli analisti americani. Il fronte degli scettici è composto da un lato da chi, pur considerando prioritario debellare il gruppo terroristico, non condivide la strategia illustrata dal capo di Stato; dall’altro c’è invece chi ritiene che lo Stato islamico sia una minaccia confinata al Medio Oriente, che non dovrebbe preoccupare (e di conseguenza impegnare) l’amministrazione Usa, almeno per ora.
Per la Casa Bianca le cose non stanno ovviamente così. “Gli Stati Uniti – ha spiegato Obama nel suo discorso alla nazione – guideranno un’ampia coalizione internazionale per indebolire e alla fine distruggere l’Isis. Il nostro obiettivo è chiaro: indeboliremo e, alla fine, distruggeremo Isis con una strategia completa e sostenuta” e “cacceremo i terroristi che minacciano il nostro paese, ovunque si trovino. Questo significa che non esiterò ad agire contro lo Stato islamico in Siria, come in Iraq“.
Dopo il forte calo di popolarità dei mesi scorsi, frutto soprattutto di alcune scelte contestate in politica estera, l’opinione pubblica statunitense sembra ora sostenere il piano del presidente, benché ancora estremamente nebuloso (non definisce la durata dell’offensiva, né la sua portata).
I DUBBI DI DIXON
A dubitarne, invece, sono molti autorevoli commentatori. Per il fondatore e direttore di Reuters Breakingviews, Hugo Dixon, nonostante “la barbara uccisione” di due giornalisti americani, l’affermazione di Obama secondo cui l’Isis va attaccato perché costituisce una minaccia per gli Usa è “un po’ debole“. Gli Stati Uniti secondo Dixon “non dovrebbero guidare questa battaglia“, ma farla condurre a chi è davvero “minacciato” dal gruppo terroristico, ovvero gli alleati “locali” (tra i quali l’ambigua Arabia Saudita).
3 Obama's official casus belli is ISIS is threat to US. While it has brutally murdered 2 US journalists, the broader claim is a bit tenuous
— Hugo Dixon (@Hugodixon) 11 Settembre 2014
L’IRONIA DI BREMMER
Pungente il giudizio del politologo e fondatore di Eurasia group, Ian Bremmer, secondo il quale “la strategia di Obama contro l’Isis non è così differente da quella della scorsa settimana, cioè nessuna“.
Obama ISIS strategy not so different from last week's no strategy. Which isn't so bad.
— ian bremmer (@ianbremmer) 11 Settembre 2014
I CONSIGLI DI IGNATIUS
Anche l’editorialista del Washington Post David Ignatius, in uno dei suoi commenti per il quotidiano della capitale federale, avverte Obama dei pericoli che si annidano in una strategia così poco chiara e di cosa fare per evitarli. Per la firma del Post è fondamentale non ripetere gli errori del passato, in particolare quelli iracheni. Anche per questo Ignatius auspica una chiarezza e dei presupposti, come il sostegno incondizionato dei Paesi musulmani alleati nella regione, che ancora non ci sono.
LA POLEMICA DI SCAHILL
Jeremy Scahill alimenta invece l’ampia protesta del giornalismo anti-governativo e militante a stelle e strisce. Il cronista, che collabora anche l’ex nota firma del Guardian Glenn Greenwald, replica a un tweet sostenendo che considera “la polizia razzista” una “minaccia nazionale maggiore di Isis”. Il riferimento è ai fatti di Ferguson, il sobborgo di St. Louis, nel Missouri, dove alcune settimane fa un 18enne afroamericano, Michael Brown, fu ucciso da un poliziotto provocando giorni di disordini.
@Shoq I consider racist police a greater domestic threat than ISIS.
— jeremy scahill (@jeremyscahill) 11 Settembre 2014
Clicca qui per ascoltare il discorso completo di Barack Obama (video in inglese)