A provocare perplessità, o a fare scandalo, non è tanto il numero delle votazioni infruttuose svoltesi per l’elezione parlamentare dei due giudici mancanti al plenum della Corte Costituzionale, quanto l’ostinazione con la quale il Pd e Forza Italia battono la strada di un passato ormai irripetibile, candidando persone troppo immerse nella politica.
Le 14 votazioni andate a vuoto sono, in fondo, poca cosa rispetto alle altrettante che occorsero, ma in ben diciotto mesi, contro i tre di questa volta, per riempire i vuoti creatisi alla Corte nel 2001 con la scadenza dei mandati di Cesare Mirabelli e Francesco Guizzi, eletti nove anni prima dal Parlamento in seduta congiunta.
Vale la pena ricordare, a questo punto, anche se su un piano diverso, le 23 votazioni parlamentari che furono necessarie nel 1971 per eleggere alla Presidenza della Repubblica il democristiano Giovanni Leone. All’elezione del socialista Sandro Pertini, che si sarebbe rivelato il presidente più popolare nella storia della Repubblica, occorsero 16 votazioni nel 1978. Altrettante furono necessarie nel 1992 per l’elezione del democristiano Oscar Luigi Scalfaro. E non furono più numerose solo perché a “svegliare” il Parlamento fu la strage di Capaci, costata la vita al povero Giovanni Falcone, alla moglie e alla scorta.
Nel 1964 erano stati necessari 21 scrutini per mandare al Quirinale il socialdemocratico Giuseppe Saragat, eletto per sfinimento il 28 dicembre, sotto Capodanno, così come Leone nel 1971 sotto Natale, il 24 dicembre, grazie anche all’impazienza dei parlamentari di raggiungere le loro famiglie.
Certo, il Quirinale non è la pur dirimpettaia Consulta, e il presidente della Repubblica non è un giudice costituzionale. Che sotto certi aspetti gli è addirittura superiore: anche quello da lui nominato fra i cinque di spettanza appunto presidenziale, perché in grado di bocciare una legge promulgata dal capo dello Stato. Ma quando il Parlamento è chiamato a votare a scrutinio palese sulle persone bisogna sempre fare i conti con una certa sua imprevedibilità.
Questa volta c’è tuttavia nell’elezione dei giudici costituzionali di spettanza parlamentare qualcosa di nuovo rispetto al passato, quando i parlamentari non avevano remore a mandare alla Consulta loro colleghi, che pertanto passavano direttamente dalla politica alla Corte Costituzionale, purché provvisti naturalmente delle competenze professionali prescritte dalla Costituzione.
I partiti, e i rispettivi gruppi parlamentari, non hanno più la forza, l’autorevolezza e il consenso di una volta, che consentivano all’opinione pubblica di fidarsi delle loro decisioni e designazioni. Anche se Matteo Renzi da Palazzo Chigi si è appena proposto di restituire alla politica “il primato” perso nei rapporti con la magistratura e con altri poteri dello Stato, compresa – direi – la burocrazia, il disincanto della opinione pubblica è grande. Lo dimostra, fra l’altro, la crescente diserzione delle urne da parte degli elettori. Persino il quasi 41 per cento dei voti clamorosamente raccolti dal Pd sotto la guida di Renzi nelle elezioni europee della scorsa primavera ha l’inconveniente di provenire da un modesto 52 per cento di votanti. Una volta gli elettori andavano alle urne con percentuali bulgare, garantendo agli eletti una investitura più corposa.
C’è insomma un vuoto di fiducia da riempire, o recuperare. E il modo per farlo non sembra essere quello di continuare nella pretesa dei partiti, peraltro al lordo delle faide interne, di pescare al loro interno, fra militanti, dirigenti e deputati o senatori ancora in carica, giudici neutri quanto mai quali dovrebbero essere quelli della Corte Costituzionale. Lo stesso ragionamento andrebbe fatto, se permettete, anche per i presidenti e i membri delle tante autorità di garanzia di nomina politica o istituzionale.
E’ una questione ormai di metodo, più che di merito, per cui, nonostante gli appelli e le proteste persino del capo dello Stato, intervenuto in questa vicenda a gamba tesa, finiscono nel tritacarne della diffidenza, e persino del pregiudizio, anche persone competentissime e degnissime, come sicuramente è nel caso ancora aperto il post-comunista Luciano Violante, ex magistrato, docente universitario, ex presidente della commissione parlamentare antimafia, ex capogruppo del suo partito a Montecitorio, ex presidente della Camera, ex responsabile giustizia della sua formazione politica e altro ancora.
Altrettanto valente si considera il berlusconiano ex presidente di commissione alla Camera, attuale senatore e avvocato di lungo corso Donato Bruno, pur indagato per una storia di consulenze per fallimenti. Una storia peraltro ingigantita forse da certa stampa dal citofono giudiziario facile – direbbe Renzi – proprio per sbarrargli la strada della Consulta e, o soprattutto, per trascinare nella caduta, in un gioco perverso di sponda, il co-candidato Violante. Che è colpevole di avere lodevolmente e finalmente preso da un certo tempo le distanze da suoi ex e notissimi colleghi magistrati per l’uso troppo disinvolto delle loro funzioni, e per la preferenza indebitamente data al palcoscenico, mediatico o politico, a dispetto della discrezione e neutralità necessarie a chi amministra la Giustizia nei tribunali.
Francesco Damato