Come aveva preannunciato, il presidente americano Obama ha ordinato di estendere dall’Irak alla Siria i bombardamenti contro le basi e le forze dello Stato Islamico, conosciuto anche come Isis. Dal punto di vista strategico, la decisione è del tutto corretta.
Lo Stato Islamico, autoproclamatisi Califfato di tutti i musulmani, agisce nei due Paesi. Ha sinora utilizzato la regione di Raqqa in Siria come base-rifugio per sottrarre i suoi capi e i suoi equipaggiamenti pesanti all’azione delle forze aeree americane e francesi e agli attacchi dei peshmerga curdi e di quanto rimane dell’esercito iracheno. L’estensione dell’impegno americano alla Siria rende ancora più indispensabile la definizione da parte di Washington degli assetti della geopolitica mediorientale quando, prima o poi, cesseranno i conflitti interni, sovrapposti a quelli per procura fra sunniti e sciiti, fra l’Arabia Saudita e l’Iran, fra la Turchia e i Curdi, eccetera.
Essi sono sconvolti profondamente dalla costituzione di uno Stato transnazionale “mesopotamico” fra l’Eufrate e il Tigri. Con essa si pongono in discussione i confini fissati dalla Gran Bretagna e dalla Francia alla fine del primo conflitto mondiale (accordi Sykes-Picot e conferenze di Sèvres, Losanna e San Remo). I militari faranno il loro lavoro, ma non possono navigare a vista, senza conoscere gli obiettivi finali che i loro “padroni politici” si propongono. Il problema è reso complesso dall’incredibile intreccio di alleanze, spesso contrapposte fra loro.
Per ora gli USA sembrano decisi, contrariamente ai sospetti e timori soprattutto sauditi, ad appoggiare i loro tradizionali alleati del Golfo, e a non tradirli per facilitare un accordo con l’Iran. Lo fanno anche perché sono consapevoli che l’Isis può essere battuto solo con una collaborazione simile a quella data loro in Iraq nel 2006-08 dai Consigli del “risveglio sunnita” della provincia di Anbar.
I bombardamenti in Siria sono iniziati in modo molto più massiccio di quelli in Irak. Sono state lanciate da navi schierate nel Mar Rosso e nel Golfo Persico decine di missili Cruise. Hanno partecipato ai bombardamenti anche i potentissimi cacciabombardieri F-22 Raptor, decollati verosimilmente dalla grande base aerea che gli americani hanno nel Qatar. Finora non era stata autorizzata da Doha ad attaccare l’ISIS in Iraq. Agli aerei USA si sono aggiunti quelli di vari Stati arabi, dall’Arabia Saudita al Qatar, dagli Emirati alla Giordania e al Kuwait. La Francia ha continuato a bombardare in Iraq, ma per dichiarati motivi legali non ha inviato i suoi Rafale, schierati nella base che possiede negli Emirati, a bombardare la Siria. La Turchia ha vietato l’utilizzo delle proprie basi, inclusa la grande base Nato di Incirlik.
Come Obama aveva preannunciato, l’intervento americano non è stato concordato né con Assad né con l’Iran. La dichiarazione della Casa Bianca di voler colpire l’Isis senza aiutare Assad, lascia però un po’ il tempo che trova. Mi sembra una “foglia di fico”, piena di buchi. Gli attacchi americani sono stati estesi anche alle formazioni d’insorti siriani collegate ad al-Qaeda, quali Jublatt al-Nusra e il gruppo Khorasan. A essi non hanno partecipato aerei degli Stati arabi, anche perché i loro governi continuano a sostenerle contro Assad.
Non risulta che altre forze della rivolta anti-alawita, definite moderate dagli Usa, abbiano partecipato né che siano state informate degli attacchi. Sono litigiose, divise da rivalità e inefficienti. Le Unità di Protezione, cioè i peshmerga curdi siriani, hanno applaudito all’azione americana, dichiarandosi disponibili a collaborare.
L’accettazione della loro offerta è stata accolta dagli Usa con molta cautela, se non con freddezza. In quelle unità sono affluiti dalla Turchia molti guerriglieri del PKK. Il loro rafforzamento susciterebbe la reazione turca. A parer mio, l’esercito di Damasco è stato preavvisato dell’attacco. Certamente gli Usa sono consapevoli che è l’unica forza in Siria su cui contare non solo per sconfiggere l’ISIS, ma per evitare lo scoppio di una situazione di tipo libico, qualora Assad dovesse cadere. Beninteso, il condizionale è d’obbligo. La cosa sembra però confermata sia dalle ridotte proteste del governo di Damasco per la violazione della sua sovranità sia, soprattutto, dal fatto che la contraerea e gli intercettori governativi non sono intervenuti contro quella che era stata definita un’aggressione internazionale.
I bombardamenti in Siria continueranno. Determineranno nuove tensioni fra Washington e Mosca. I loro effetti saranno però ridotti. Non distruggeranno l’Isis, anche se lo indeboliranno e gli renderanno difficili manovre per linee interne fra la Siria e l’Iraq. Non vi sono da farsi molte illusioni. L’Isis si rifugerà nelle città, che non saranno bombardate per non provocare vittime civili. Gli insorti siriani, definiti moderati, non potranno fare molto. Certamente, daranno priorità alla lotta contro Assad più che a quella contro l’Isis. Gli Usa non potranno essere certi dell’appoggio degli Stati del Golfo, soprattutto se i bombardamenti consentissero al governo di Damasco di ottenere qualche successo. L’estensione degli attacchi americani agli insorti collegati con al-Qaeda potrebbe addirittura indurle ad allearsi con l’Isis.
Infine, Obama dovrebbe specificare gli obiettivi finali che si propone, cioè quali assetti dovrebbe assumere la geopolitica del Medio Oriente. Dovrebbe in altre parole dire perché bombarda e perché ha scelto di avere quegli alleati. Molti di essi hanno sostenuto l’Isis, ritenuto una forza capace di ridimensionare l’influenza iraniana e sciita in Medio Oriente. Solo così potrà eliminare il dubbio che abbia deciso di impiegare la forza solo per seguire gli umori della propria opinione pubblica, emozionata dallo spettacolo delle decapitazioni di ostaggi occidentali dell’Isis.
Rimane sempre il dubbio che l’Isis, con la sua sofisticata capacità mediatica, le abbia fatte proprio per farsi bombardare e impugnare lo scettro dell’antiamericanismo nel mondo arabo.