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Tutti i nodi energetici della guerra all’Isis

Gli Usa stanno per diventare il primo produttore di petrolio liquido al mondo, scavalcando l’Arabia Saudita. Il sorpasso potrebbe avvenire entro questo mese, consentendo a Washington di riconquistare un primato perso nel 1991.

A prevederlo sono le stime dell’International energy agency, riprese dal britannico Financial Times, che stimano che entro la fine dell’anno la produzione americana di brent dovrebbe superare i 9 milioni di barili al giorno.

LA RIVOLUZIONE DELLO SHALE OIL

L’industria statunitense, spiega il quotidiano finanziario, “è stata trasformata dalla rivoluzione shale“, con i progressi nelle tecniche di fracking idraulico e di perforazione orizzontale, consentendo lo sfruttamento di giacimenti petroliferi, in particolare in Texas e North Dakota, che sono stati a lungo considerati poco attrattivi commercialmente.
Inoltre i prezzi del greggio, decisamente alti per gli standard di un decennio o più fa, hanno reso vantaggioso utilizzare queste tecniche per estrarre petrolio.

LA STRATEGIA NON CAMBIA

Anche se che è diminuita la dipendenza dalle importazioni, ciò non ha portato gli Stati Uniti a disimpegnarsi dal Medio Oriente, anche se ha incoraggiato chi chiede un impegno militare ridotto nella regione.
Dopo la retorica incendiaria dell’esportazione della democrazia perseguita negli anni di George W. Bush, secondo un’accurata analisi della London School of Economics, la strategia di Barack Obama nella regione è improntata a un maggiore realismo, “con degli echi nixoniani”. Tuttavia gli Usa non hanno nessuna intenzione di abbandonare un teatro fondamentale per rafforzare la propria supremazia energetica, militare e politica.

LE RISORSE ENERGETICHE

Al fianco della pur necessaria guerra al terrore, ha sottolineato a Formiche.net il direttore della Nato Defense College Foundation Alessandro Politi, “il capo di Stato americano interviene in Irak e Siria non solo per motivi umanitari e per proteggere i cristiani, ma anche per ragioni economiche. L’Isis potrebbe invadere il Kurdistan iracheno, dove si trova la maggior parte delle riserve petrolifere del Paese“. Un’eventualità che avrebbe ripercussioni immediate sul prezzo del petrolio, oltre a consentire allo Stato Islamico di allungare ancora di più i suoi tentacoli (e di conseguenza i suoi introiti) sui alcuni giacimenti, già nel mirino dei raid americani.

LE FRIZIONI ARABE

Il quadro è reso ancor più complesso dalle competizione energetico-economica interna al mondo arabo. Nel luglio del 2011 – spiega un dossier di Limes -, Siria, Iran e Iraq siglarono un accordo per la costruzione del cosiddetto Gasdotto dell’Amicizia (o Gasdotto islamico), che avrebbe dovuto entrare in funzione nel 2014-2016. L’infrastruttura, si legge nell’analisi, “potrebbe trasportare fino a 40 Gmc annui di gas dal maxigiacimento iraniano di Pars Sud, nel Golfo Persico, sino alla Siria e al Libano – e da qui verso i mercati e su scala regionale“. Un progetto non visto di buon occhio per motivi differenti da Turchia e Qatar. Ankara teme che questo gasdotto ridimensioni il peso del concorrente Nabucco, il cui percorso previsto passa da Irak, Azerbaigian e Turkmenistan attraversando la Turchia; Doha invece, che con l’Iran condivide il giacimento, ha altri progetti per la sua quota di gas e non vorrebbe farla transitare attraverso quell’infrastruttura. Entrambe le nazioni sono accusate in queste ore, non a caso, di essere o essere stati vicini ai ribelli dell’Isis. La Turchia non prendendo parte alla coalizione americana pur essendo membro della Nato e chiudendo le frontiere ai curdi in fuga; il Qatar avendo finanziato il gruppo prima della sua espansione.
Motivi che hanno spinto alcuni analisti a sottolineare maliziosamente la coincidenza che le frange più violente della rivolta in Siria, quelle infiltrate dai qaedisti di Jabhat al-Nusra, siano esplose due anni fa, quasi nello stesso momento della firma del memorandum per il gasdotto.



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