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Berlusconi e Fitto, ragioni e torti di un litigio post-Dc

Ciò che Silvio Berlusconi si è forse trattenuto dal dire nel pur durissimo scontro diretto avuto con il dissidente Raffaele Fitto, rimproverandogli nella riunione dell’ufficio di presidenza di Forza Italia le origini democristiane della famiglia e sfidandolo a creare un proprio partito, glielo ha fatto gridare in qualche modo su Il Foglio il fondatore e direttore Giuliano Ferrara. Che ad un editoriale da lui stesso scritto come “promemoria per Fitto, Capezzone e altri immusoniti berlusconiani” ha dato questo titolo, di una franchezza pari alla brutalità: “Dissenso e rottura di coglioni”. Un editoriale che si conclude con l’invito ai dissidenti, appunto, ad “evitare di rompere i coglioni”. Ormai manca solo l’urlo usuale del “vaffanculo” di Grillo nelle piazze.

Berlusconi, in verità, a dispetto della franchezza di Ferrara, ha cercato in qualche modo di ridurre la portata dello scontro con Fitto al livello umano del rimprovero di “un padre al figlio”: un padre peraltro- anche se lui ha evitato di ricordarlo- che nel pur lontano 1948, ai tempi di Alcide De Gasperi, da ragazzo di dodici anni neppure compiuti si dava orgogliosamente da fare nelle strade di Milano per incollare sui muri i manifesti di propaganda elettorale della Dc, il partito di papà Fitto.
Ma non è per niente detto, come lascia appunto supporre la “postilla” di Ferrara, ministro nel suo primo governo, che a Berlusconi sia passata l’arrabbiatura procuratagli dalla pervicace dissidenza di Fitto. Che gli contesta, fra l’altro, un rapporto con Matteo Renzi a metà strada fra una opposizione dichiarata e un sostegno praticato.

Molto ha forse contribuito alla delusione e al risentimento di Berlusconi verso Fitto il ricordo del perdono politico incautamente accordatogli nel 2010, quando a Palazzo Chigi ne respinse le dimissioni da ministro per gli Affari regionali, in quello che sarebbe stato il suo ultimo governo. Dimissioni offertegli dal giovane allora pupillo nella consapevolezza di averla fatta grossa nel turno di elezioni regionali svoltosi il 28 e il 29 marzo di quell’anno.

Delle tredici regioni a statuto ordinario interessate a quel turno – esattamente Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria – sette finirono allo schieramento di sinistra e sei al centrodestra. Il Pd, sconfitto al suo esordio nazionale due anni prima, scorse in quel risultato regionale il segno incoraggiante di una ripresa politica, poi favorita dalla rottura tra Fini e Berlusconi, dal solito accanimento giudiziario contro l’allora Cavaliere e dall’esplosione di una crisi economica e finanziaria di dimensioni internazionali, cui il governo berlusconiano era stato per un po’ fra i pochi in Europa a resistere.

Quel 7 a 6 delle elezioni regionali del 2010 a favore del Pd e dei suoi alleati avrebbe potuto risultare al rovescio solo se Fitto nella sua Puglia avesse voluto fare ciò che pure Berlusconi riteneva personalmente utile: il sostegno alla candidatura alla presidenza della Regione dell’ex ministro della destra e sindaco di Lecce Adriana Poli Bortone. Tutto giocava sulla carta a favore di un accordo di quel tipo: i sondaggi, l’autorevolezza della Bortone, alla quale Fini non osava porre veti formali pur essendosi consumata tra di loro una separazione politica per lo scioglimento di Alleanza Nazionale e la confluenza nel Pdl, l’indebolimento infine del “governatore” uscente di sinistra Nichi Vendola.

Ma Fitto non ne volle sapere e assicurò Berlusconi che la partita del centrodestra sarebbe stata vinta anche senza l’accordo con la Poli Bortone e l’Udc di Pierferdinando Casini, che la sosteneva. E impose –letteralmente- la candidatura del suo amico e già vice presidente della regione Rocco Palese. Il povero Berlusconi se ne fidò. I risultati furono impietosi per la sicurezza ostentata da Fitto. Il governatore uscente fu rieletto con il 48 per cento dei voti, contro il 42,2 di Palese e l’8,7 della Poli Bortone. La somma di 42,2 e 8,7 fa il 50,9 per cento, quasi il 51. Ancora più grande risultò l’errore di Fitto analizzando i risultati delle coalizioni a sostegno dei tre candidati alla presidenza. Il cartello vendoliano prese il 46 per cento dei voti, quello di Palese il 44,2 e quello della Bortone il 9,43. La somma del 44,2 e del 9,4 fa 53,6.

Di fronte a numeri così evidenti, e alle comprensibili proteste levatesi dall’interno dell’allora Pdl, Fitto non potette sottrarsi al dovere delle dimissioni, da molti ritenute ragionevolmente destinate ad essere accettate da Berlusconi. Che invece le respinse con una generosità forse ora fra le cause della sua rabbiosa reazione alla sopraggiunta dissidenza di Fitto.



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