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Il Corriere della Sera, Mediobanca e i capitalisti da strapazzo. Parla Giancarlo Galli

Un tempo fulcro, cervello e crocevia di tutte le strategie fondamentali dei gruppi economici italiani, Mediobanca si avvia verso un malinconico tramonto. Lasciando il passo al protagonismo crescente di Cassa depositi e prestiti nella realtà industriale. E certificando la sconfitta della stagione liberista che negli anni Novanta aveva alimentato la speranza in una genuina e storica “rivoluzione di mercato” nel nostro paese.

L’editoriale pubblicato dal Corriere a firma di Daniele Manca – “Una volta c’era Mediobanca” – tocca nel profondo i limiti e ritardi del capitalismo nazionale. Compresa la politica di privatizzazioni che in buona parte si è rivelata fallimentare, come riconosciuto recentemente dallo stesso Ferruccio de Bortoli.

Per capirne di più Formiche.net è tornata a interpellare Giancarlo Galli, saggista economico, editorialista di Avvenire, autore di libri e inchieste che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide dell’establishment.

Condivide il ragionamento sviluppato sul Corriere della Sera?

L’articolo coglie nel segno. Nel mondo della finanza nazionale non esistono più grandi figure come Enrico Cuccia – cui dedicai nel 1994 il libro “Il padrone dei padroni” – e Guido Carli. Banchieri in grado di tenere al guinzaglio e governare in modo mirabile un assetto creditizio degno di questo nome. Grazie a un complesso di relazioni internazionali di rango elevato, soprattutto con ambienti francesi e tedeschi. Attualmente prevalgono personaggi di modesta statura animati da ambizioni personali.

Cosa è avvenuto dopo la scomparsa di quelle figure?

Mediobanca si è trasformata in una modesta banca d’affari che distribuisce un po’ di soldi con fortuna moderata, visto che il bilancio fatica a restare in utile. Peraltro Cuccia affermava che i banchieri non avrebbero mai dovuto occuparsi di giornali. Oggi invece essi sono affaccendati attorno ai grandi organi di stampa, contribuendo alla loro scarsa credibilità in tema economico-finanziario. Tant’è che tutti, compreso il Sole 24 Ore, hanno faticato ad accorgersi del declino produttivo italiano. Così ora l’Italia dipende più che mai da investitori finanziari stranieri.

È un fatto negativo?

Sì. Perché la loro presenza non è propulsiva per lo sviluppo economico. Si limita al rastrellamento di risorse in un mercato che rimane favorevole al risparmio. Una logica alimentata dalle risorse enormi prestate agli istituti creditizi dalla Banca centrale europea.

La borghesia italiana, inclusa la grande stampa, ha sbagliato a cantare le magnifiche sorti e progressive del capitalismo delle public company al posto di Mediobanca?

Senza dubbio. È accaduto che i nostri industriali, avendo perduto lo spirito iniziativa all’origine della crescita formidabile dell’Italia repubblicana, smobilitassero progressivamente le loro attività produttive. Come la Fiat. E nel terreno finanziario è mancato un processo di rinnovamento tanto più auspicabile alla luce della crisi globale del 2008. Così oggi non esiste un grande tessuto bancario, privatistico e autonomo, capace di coltivare robusti legami con la finanza internazionale e di promuovere il riscatto economico della penisola. Tra i nostri banchieri si respira aria di vecchiaia e provincialismo. E la cartina di tornasole è proprio nel declino di Mediobanca.

Per quale motivo?

Un tempo l’istituto di Via Filodrammatici costituiva la longa manus in Italia dei poteri forti internazionali. Il “tempio laico della finanza e dell’economia”. Ruolo ormai perduto. Tutto è tramontato con la scomparsa del suo fondatore, che non ha lasciato eredi. Neanche Vincenzo Maranghi lo era. Prova eloquente del tramonto di Mediobanca sono le “imprese poco nobili” degli ultimi tempi, come il tentativo di salvare l’impero di Salvatore Ligresti.

L’attuale Mediobanca è sotto scalata?

Il francese Vincent Bollorè si dà molto da fare da tempo attraverso la detenzione di quote dell’istituto finanziario. Altro ruolo importante gioca l’imprenditore tunisino Tarak Ben Ammar. Poi vi sono le famiglie Berlusconi e Pesenti. Tuttavia Mediobanca, un tempo punto di raccordo dell’imprenditorialità italiana, è molto più fragile venuto meno lo slancio produttivo dei gruppi industriali del nostro paese.

Il Corriere della Sera ha lanciato una stilettata ulteriore e indiretta alla Fiat e agli Agnelli?

Nel principale quotidiano italiano vi è la duplice preoccupazione per la fuga dei gruppi industriali e la mancanza di personalità in grado di risollevare la bandiera della rinascita economico-sociale. Una cornice di impoverimento imprenditoriale in cui ci si affida sempre più al ruolo di Cassa depositi e prestiti. Realtà che finisce per favorire un’influenza politica rilevante su aziende del calibro di Eni ed Enel.

È la resa definitiva alla presenza nevralgica dello Stato nell’economia?

Penso di sì. Ricordo però che nel 1946 i tre azionisti principali di Mediobanca erano gli istituti creditizi pubblici gravitanti nella galassia dell’Iri: Credito italiano, Comit, Banco di Roma. Fu Cuccia, con la sua abilità di “centauro metà pubblico e metà privato”, a proiettarle nel tempo in un’ottica privatistica.



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