Sta dunque tramontando, dopo una lunga serie di infruttuose votazioni parlamentari, anche la candidatura di Luciano Violante a giudice costituzionale. Una candidatura che sembrava la più coracea, ostinatamente difesa dai vertici del suo partito, il Pd, di fronte ai ripetuti cambi di cavallo imposti a Forza Italia – per l’aggiudicazione dell’altro seggio in palio alla Consulta – dalle resistenze incontrate prima da Antonio Catricalà, poi da Donato Bruno, infine da Ignazio Francesco Caramazza.
Neppure a Violante è stata quindi risparmiata l’amarezza di una prospettiva di resa alle difficoltà di una corsa che gli ha peraltro impedito di arrivare alla Consulta anche per un’altra via: quella percorsa l’anno scorso dal suo quasi coetaneo Giuliano Amato, nominato dal presidente della Repubblica in sostituzione di un giudice scaduto fra i cinque della quota quirinalizia.
Probabilmente Giorgio Napolitano avrebbe nei giorni scorsi scelto proprio Violante per uno dei due altri posti di nomina presidenziale appena liberatisi alla Corte Costituzionale, se il suo amico ed ex compagno di partito, da lui notoriamente stimato, sino a volerlo fra i “saggi” chiamati l’anno scorso a predisporre il programma delle riforme istituzionali delle “larghe intese” di governo, se non si fosse esposto come candidato di designazione parlamentare.
Già impegnato in una incalzante polemica contro i ritardi delle Camere nella scelta dei giudici di loro spettanza, il presidente della Repubblica non avrebbe potuto onestamente alzare ulteriormente lo scontro intervenendo a gamba tesa nei contrasti interni allo schieramento politico, sino a mandare Violante alla Consulta di suo, dandogli cioè una investitura negatagli sulla corsia che lo stesso Violante aveva scelto per arrivare a quel traguardo.
Si va così consumandosi la prova forse più dura della lunga esperienza politica dell’autorevole esponente del Pd, già capogruppo parlamentare, presidente della commissione parlamentare antimafia e presidente della Camera, in ordine crescente dei vari incarichi, ai tempi del Partito Comunista Italiano e delle sigle successive alla caduta del muro di Berlino, cioè al crollo della ideologia fondante. Egli ha purtroppo compiuto l’errore di proporsi o lasciarsi proporre alla Corte Costituzionale, di fatto e nonostante il clima così profondamente mutato nel Paese, più per i suoi trascorsi politici che per le sue indubbie competenze e qualità di giurista, per non parlare dell’esperienza accumulata come magistrato prima di approdare a Montecitorio.
E’ infine mancata a Violante, con i voti negatigli per una ventina di volte negli scrutini parlamentari obbligatoriamente segreti, proprio quella solidarietà politica sulla quale lui aveva voluto contare dentro e fuori del proprio partito. Dove in molti, su fronti naturalmente contrapposti, o non gli hanno perdonato la lunga comunanza con le toghe, negli anni in cui l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo dipingeva con feroce sarcasmo come “il piccolo Vyzinski”, lo storico e infausto pubblico ministero delle purghe staliniane nell’Unione Sovietica, o ne hanno temuto e perciò impedito come giudice costituzionale un valido contributo al riequilibrio nei rapporti fra magistratura e politica, vista la consapevolezza degli squilibri da lui mostrata negli ultimi tempi con spirito anche autocritico.
Sta insomma capitando a Violante, se non gli è già capitato, di essere punito più per il bene che avrebbe potuto fare alla Consulta che per il male fatto negli anni in cui gli veniva attribuita la guida impropria, pur da lui negata, del “partito dei giudici”. Che poi era, più in particolare e più rovinosamente, il partito dei pubblici ministeri.
Francesco Damato