L’Isis sta guadagnando fino a 1 milione di dollari al giorno dalla vendita di petrolio ad alcuni dei suoi più grandi nemici: la Turchia, la comunità curda in Irak e il regime siriano di Bashar al-Assad.
A denunciare questi singolari intrecci energetici, che allontano di molto la sconfitta del gruppo terroristico guidato da al-Baghdadi, è il Tesoro statunitense.
LE PAROLE DI COEN
Queste considerazioni, si legge sul britannico Financial Times, fatte mercoledì in un discorso alla Carnegie Foundation dal sottosegretario al terrorismo e l’intelligence finanziaria David Coen, faranno mugugnare dentro e al di fuori della regione, dove molti osservatori hanno già chiesto ad Ankara maggior impegno nel combattere il “Califfato”, mentre i curdi stanno resistendo perché la città siriana di Kobane non finisca sotto il controllo dei jihadisti. Lo speech di Coen è finora il più dettagliato mai fatto sulla forza economica dell’Isis e sulla sua capacità di infiltrarsi nel mercato nero “accumulando ricchezze a un ritmo senza precedenti“, nell’incapacità o nel silenzio delle istituzioni.
SANZIONI IN VISTA?
“Intermediari, commercianti, raffinatori, aziende di trasporto, e chiunque altro gestisca il petrolio dell’Isis – ha ammonito il sottosegretario – deve sapere che siamo al lavoro per identificarli e abbiamo a portata di mano gli strumenti per fermarli“, tra i quali alcune sanzioni.
LA SMENTITA CURDA, LA REPLICA TURCA
Funzionari curdo-iracheni hanno respinto l’accusa americana, sostenendo di non comprare petrolio da nessuno, bensì di produrlo e venderlo. Un business alternativo e semmai concorrenziale a quello messo in piedi dai terroristi.
Non si è fatta attendere nemmeno la replica turca, netta ed evidentemente seccata. “Dai nostri alleati“, ha detto Tanju Bilgiç, portavoce del ministro degli Esteri di Ankara, “ci aspettiamo che condividano con noi le loro fonti d’intelligence e non che accusino pubblicamente” il Paese. “La Turchia combatte il contrabbando di petrolio con determinazione“, ha aggiunto, ricordando alcuni sequestri e la posizione ufficiale di condanna espressa dal governo. Tuttavia le parole del Tesoro Usa non fanno che sottolineare ancora di più le ambiguità della Turchia, accusata di non prendere parte attivamente alla coalizione americana pur essendo membro della Nato.
LE FRIZIONI
Il malumore turco arriva da lontano e ha molto a che fare con la competizione energetico-economica interna al mondo arabo e islamico. Nel luglio del 2011 – spiega un dossier di Limes – Siria, Iran e Irak siglarono un accordo per la costruzione del cosiddetto Gasdotto dell’Amicizia (o Gasdotto islamico), che avrebbe dovuto entrare in funzione nel 2014-2016. L’infrastruttura, si legge nell’analisi, “potrebbe trasportare fino a 40 Gmc annui di gas dal maxigiacimento iraniano di Pars Sud, nel Golfo Persico, sino alla Siria e al Libano – e da qui verso i mercati e su scala regionale“. Un progetto non visto di buon occhio per motivi differenti dal Paese del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Ankara teme che questo gasdotto ridimensioni il peso del concorrente Nabucco, il cui percorso previsto passa da Irak, Azerbaigian e Turkmenistan attraversando la Turchia.
LA STRATEGIA DI OBAMA
Gli aspetti energetici sono essenziali in questo conflitto e per la stessa ascesa dell’Isis, che ha una strategia completamente differente da quella dei maggiori gruppi terroristici che lo hanno preceduto come al-Qaeda, che invece dipendono dalle donazioni per sopravvivere. Lo Stato islamico è divenuto ricco e potente come mai nessun gruppo terrorista prima d’ora, grazie soprattutto a un vero e proprio sistema imprenditoriale che lo ha portato a depredare arsenali militari, svaligiare istituti di credito, addirittura investire in bitcoin e, come detto, a sfruttare giacimenti petroliferi in Siria ed Irak. Non a caso una delle prime mosse del presidente Barack Obama per contrastare il network del terrore, fu proprio colpirne gli introiti energetici. Nel mirino dei raid Usa (seppur tra i dubbi di Cina e Russia, spiegò la Cnn) sono entrate a fine settembre le raffinerie “modulari” dell’IS, impianti che hanno il vantaggio di poter essere montati e smontati secondo le esigenze e che costituiscono la base di una delle principali fonti di redditto dei jihadisti. Gli attacchi americani colpirono le installazioni per la produzione di greggio nella provincia orientale siriana di Deyr az Zor, e ne seguirono altre. Ma stabilire a quanto ammontino ancora le materie prime nelle mani del gruppo è difficile.