Secondo un rapporto di Amnesty International, negli ultimi mesi le milizie sciite irachene hanno imprigionato, e in diversi casi ucciso, decine di civili sunniti in una sorta di rappresaglia, vendetta, per le azioni dello Stato Islamico.
È noto che le attività militari contro l’IS siano state portate avanti più da queste entità che dall’esercito stesso: disorganizzato, corrotto, debole. Le milizie sciite invece sono state rinvigorite durante il premierato di Nouri al-Maliki, finanziate dall’Iran, indottrinate e armate a dovere. Sono diventate la risposta pronta all’offensiva del Califfo, reclutando migliaia di volontari – spesso molto “meno improvvisati” dei soldati. In giugno, quando i fedeli ricevettero l’ordine dell’ayatollah Ali al-Sistani (il chierico guida religiosa e riferimento politico dello sciismo iracheno) di “combattere i “takfiri” dell’IS, risposero arruolandosi nelle milizie, non tra l’esercito – e, d’altronde, era questo che voleva Sistani.
Il governo Maliki riusciva a gestire le milizie con maggiore precisione e queste hanno risposto con miglior rigore (e vigore) delle stesse forze armate. Qualcosa di analogo si era visto con gli shabiha del regime, messi in piedi da Assad in Siria, per portare a termine “i lavori più sporchi” contro i ribelli. Le contropartite irachene vengono da una realtà ancora più qualificata: l’esperienza quasi decennale della Guerra d’Iraq. In quegli anni, le milizie fanatiche sciite, armate e addestrate dall’Iran, hanno avuto un ruolo importante nella guerriglia anti-americana.
Gruppi che ora appoggiano l’esercito regolare iracheno (su guida iraniana, va sottolineato) e hanno un’ideologia estremamente anti-sunnita: la Brigata Badr, le brigate Hezbollah (non quelle libanesi, anche se il modello è lo stesso), la Lega dei giusti (Asaib al-Haq) e la brigata del Giorno promesso (Liwa al-Youm al-Mawud, riferita all’Apocalisse). Negli anni della guerriglia, erano chiamate tutte con lo stesso nome, per comodità: “Gruppi speciali”. Il Guardian tempo fa aveva mandato un inviato a seguire il ritorno in Iraq di questi gruppi dalla Siria, dove combattevano al fianco del regime di Assad.
Quando, poco più di un anno fa, Obama minacciò di bombardare Damasco, responsabile del massacro chimico alla periferia della capitale, i “gruppi speciali” iracheni annunciarono attentati contro l’America per rappresaglia: gli stessi adesso godono dell’appoggio aereo USA. Ma d’altronde, con i ribelli siriani ancora lontani dall’aver iniziato la formazione militare (e vedi che alla fine nemmeno la riceveranno) e stante la ferma volontà della Coalizione di mettere in campo truppe di terra (e vedi che alla fine, magari, arriveranno), sono l’unica forza – curdi a parte, confinati nei propri territori di competenza – a contrastare effettivamente l’avanzata dello Stato Islamico.
Ma le conseguenze, sono spesso tremende: l’ideologia anti-sunnita è inasprita dal sentimento di vendetta contro l’organizzazione di Baghdadi, rea non solo di crimini analoghi, ma anche di aver sovvertito il lauto status quo che permetteva a capi e a semplici miliziani di vivere un contesto piuttosto agiato, favorito dal governo Maliki. Lo stesso premier attuale al-Abadi, ha ammesso gli eccessi compiuti in certi casi dalle “forze di sicurezza”.
Stante alle informazioni riportate nel report di Amensty International, da giugno, nelle zone di Samarra (antica città sulla sponda est del Tigri, a 100 km da Baghdad, la cui storia è molto legata ai pellegrini sciiti), sarebbero stati rapiti, imprigionati, e probabilmente uccisi, 170 civili sunniti accusati di aver avuto rapporti con l’IS. Una trentina di corpi, sarebbero stati ritrovati in una fossa comune. E la situazione non sta migliorando: a inizio ottobre, in un attentato a Kadhimiya, zona prevalentemente sciita di Baghdad, sono state uccise 21 persone da una delle tante autobombe piazzate dagli uomini del Califfato nella capitale. Tutti sciiti: nell’attacco terroristico è rimasto ucciso anche l’ex vice ministro degli Interni Ahmed al-Khafaji, prominente figura della sciita Badr Organization. Atto che chiedeva (e chiede) vendetta. Ma non c’è stato troppo da aspettare.
Racconta un testimone alla Reuters, che, nel fine settimana scorso, dopo aver aiutato in modo decisivo le forze governative a riprendere dalla morsa dello Stato Islamico una città strategica a sud di Baghdad, Jurf al-Sakhar, le milizie sciite presenti hanno deciso che era tempo del payback. «Those dogs are Chechens. They don’t deserve to stay alive. We took confessions, we don’t need them anymore»: gridavano così, mentre lasciavano a terra in una pozza di sangue tre prigionieri IS della battaglia. (Il riferimento ai “ceceni” si lega con la forte presenza di uomini provenienti dalla repubblica autonoma del Caucaso, che hanno da tempo rinfoltito le file del Califfato. Dalla Russia arriva il maggior numero di foreign fighters europei, uno di loro, Omar al Shishani è diventato un importante e fidatissimo comandate militare del Califfo: la sua presenza è stata segnalata tra i rinforzi spediti da Baghdadi per schiodare l’assedio di Kobane).
Jurf al-Sakhar era una delle tante città rimaste fantasma dopo l’arrivo dello Stato Islamico: la gran parte della popolazione era scappata, profuga, dai combattimenti. La città è sulla sponda occidentale dell’Eufrate e in una linea strategica che porta a Baghdad da sud: l’IS ne aveva mantenuto il controllo utilizzando una serie di cecchini appostati nelle aree di accesso e una serie di trappole esplosive che avevano decimato l’esercito iracheno. Inoltre gli uomini del Califfo avevano utilizzato la fitta rete di tunnel sotterranei che i soldati di Saddam Hussein avevano scavato per spostare armi eludendo i funzionari delle Nazioni Unite: d’altronde, è noto che all’interno del Califfato ci siano elementi baathisti ex-militari di Saddam, che evidentemente conoscevano bene quelle “vie sotterranee”, anche se coperte da un po’.
La fonte ha raccontato a Reuters di aver visto una cinquantina di uomini dello Stato Islamico sul terreno, morti: circa 15 avevano le mani legate dietro la schiena, un’esecuzione. Alla domanda sul come mai le “forze governative” non avevano sepolto i corpi uccisi il giorno prima, un ufficiale anziano di una non specificata milizia sciita (forse la Brigata Badr), ha risposto che «non si meritavano la sepoltura».
L’odio religioso guida, ancora una volta, questo conflitto in Iraq – e in Siria. La situazione è disastrosa, e il governo “più moderato” di al-Adnani non sembra in grado di fermarla. Divisioni e contrasti esistenziali, stanno nuovamente sfociando in una guerra. E pensare che le denunce di Amnesty International sono arrivate il giorno prima della pubblicazione sull’ultimo numero di Dabiq, la rivista dello Stato Islamico, dei dettagli di come le donne e i bambini yazidi siano diventati schiavi nel Califfato.
Il lato peggiore di tutta la storia, è che mentre l’IS ormai è stato individuato come nemico, come la realtà da distruggere, le milizie sciite, a tutte gli effetti, hanno lavorato (stanno lavorando e lavoreranno?) in partnership con la Coalizione internazionale. E questo crea un problema di credibilità della stessa coalizione agli occhi dei sunniti locali, che per battere definitivamente l’IS, dovrebbero “mollare” le posizioni filo-Califfato e ribellarsi a Baghdadi, ma che per farlo vogliono certezze sulla fine del settarismo che li ha isolati.
In più, allo stesso tempo, si crea un problema di prospettiva: come possono essere le milizie sciite, sostenute dall’Iran (con la regia del capo del Qods Force Qassem Suleimani intento a scattarsi selfie nelle città riprese al Califfo insieme agli spietati comandanti sciiti locali), un alleato affidabile e duraturo per il “mondo libero”? Con quel passato e con quel presente, poi.
Nella foto: Qassem Suleimani, capo della Qods Force iraniana (seduto, in borghese, al centro), a Jurf al-Sakhar; insieme a lui Hadi Al-Ameri (alla sinistra), leader della Badr Organization, e Muhammad Tabatabai (alla destra), della Lega dei Giusti.