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Fiasco al Quirinale

Com’era largamente prevedibile, anzi scontato, le tre ore d’udienza specialissima al Quirinale, per la testimonianza del presidente della Repubblica così tenacemente voluta dall’accusa, non sono servite praticamente a nulla alla Corte d’Assise appositamente trasferitasi da Palermo.

Presunte erano e presunte sono rimaste le cosiddette trattative fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra per scongiurare o limitare una ventina d’anni fa le stragi di mafia. Tanto presunte che il termine “trattativa”, come riferito dagli avvocati al termine dell’udienza svoltasi a porte rigorosamente chiuse nella Sala del Bronzino, chiamata in passata “oscura” per la totale mancanza di finestre, non è stato neppure usato, o consentito dal presidente della Corte, nelle domande alle quali Giorgio Napolitano è stato sottoposto. E a “quasi tutte” delle quali egli ha risposto, come è stato riferito ai giornalisti dai presenti all’udienza.

Napolitano non ha avuto nulla da aggiungere o da precisare all’ormai famoso “timore” espressogli per iscritto nel giugno del 2012, quasi in punto di morte, dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio di avere potuto apparire nella stagione delle stragi, quando lo stesso D’Ambrosio lavorava al Ministero della Giustizia, “ingenuo e utile scriba” di cose utili a “indicibili accordi”. Né il capo dello Stato ha avuto nulla da aggiungere o da precisare alle notizie, o presunte tali, raccolte successivamente dagli inquirenti su minacce di morte per mano mafiosa riguardanti anche lui, allora presidente della Camera, in quella nefasta stagione stragista. Che nel 1992 era già costata la vita al magistrato più famoso ed eroico della lotta alla mafia, Giovanni Falcone, alla moglie e a quasi tutta la scorta che lo proteggeva nel trasferimento dall’aeroporto alla città di Palermo.

La inutilità della testimonianza di Napolitano ai fini del processo, a parte l’aspetto spettacolare tempestivamente ed efficacemente attribuito ad una “logica di teatro” in una intervista a Formiche.net dal giurista ed ex presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi impunite, il post-comunista Giovanni Pellegrino, è stata involontariamente ammessa proprio alla vigilia dell’udienza al Quirinale da una fonte insospettabile come il pubblico ministro Nino Di Matteo. Che in una intervista a Euro news ha parlato della “trattativa” in modo a dir poco dubitativo, sicuramente contraddittorio rispetto alle certezze mostrate nel cosiddetto impianto accusatorio e reclamizzate da una certa stampa fiancheggiatrice della Procura di Palermo.

“Se c’è stata ”- ha detto testualmente Di Matteo parlando appunto della trattativa – essa “ha probabilmente salvato la vita ad alcuni politici, ma ha causato la morte di altri cittadini italiani”, le vittime cioè delle stragi di mafia. “Se c’è stata”, ripeto.

Ora sappiamo, secondo i dubbi coltivati o accreditati dall’accusa con il recente deposito di segnalazioni più o meno attendibili circa il pericolo di morte corso dall’allora presidente della Camera, e dal suo omologo del Senato, che fra i “salvati” dalla trattativa – sempre “se c’è stata” – potrebbe annoverarsi anche Napolitano. La cui colpa pertanto, agli occhi di chi lo sta mettendo in croce da tempo cercando di trascinarlo in qualche modo nella vicenda giudiziaria di Palermo, sarebbe quella di essere ancora in vita a spese di altri, morti praticamente al posto suo. E questo si ha ancora il coraggio, o la pretesa, di chiamarlo processo.

Francesco Damato


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