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Così cambierà la politica estera di Obama dopo la vittoria dei Repubblicani

La Costituzione conferisce al Presidente degli Stati Uniti poteri quasi sovrani in politica estera oltre quelli di comandante in capo delle Forze Armate americane che, lo si voglia o no, rappresentano il pilastro dell’ordine e sicurezza internazionali. Congresso e Senato possono sostenere le decisioni prese alla Casa Bianca oppure contrastarle e limitarle, soprattutto tagliando i fondi necessari alle varie iniziative del presidente. Il successo elettorale dei Repubblicani dovrebbe portare secondo molti osservatori, oltre che a un indebolimento personale di Obama, a cui nessuno darà più molta retta, a una maggiore aggressività degli USA, in campo politico, militare ed economico. Come risulta dalle ricerche del PEW Center on Global Issues, il crollo dei democratici è stato fortemente influenzato da un giudizio negativo sull’adeguatezza di Obama nel perseguire gli interessi, l’influenza e il prestigio americani nel mondo. E’ un’anomalia rispetto a quanto accade solitamente nelle elezioni americane, in cui determinanti sono i temi di politica interna, economici e sociali. Altri commentatori sostengono che la parabola discendente di Obama si ripercuoterà fortemente sulla capacità degli USA di prendere decisioni e di ottenere il sostegno interno e internazionale in politica estera. In sostanza, prevedono che Congresso e Senato gli metterebbero sistematicamente i “bastoni fra le ruote”, un po’ come avviene in Italia.

Non sono persuaso che questo si verificherà. Anzi, mi sembra probabile che accada il contrario. A parte le questioni formali sulle prerogative presidenziali, esistono problemi di carattere pratico, che m’inducono a pensare che la politica estera americana migliorerà e diverrà più incisiva. Certamente, gli USA, sia nei negoziati sia nell’uso della forza economica e militare, saranno più duri, decisi e aggressivi di quanto lo siano stati nei sei anni del “narcisismo politico” del primo presidente afro-americano. Certamente non è stato un leader. Verrà ricordato, come Carter e johnson, come uno dei peggiori presidenti americani. Gli aveva dato verosimilmente alla testa l’inopinato Premio Nobel per La Pace e i corali applausi dei circoli “lib-lab”, che lo salutarono come “uomo della Provvidenza”. Portando Obama alla Casa Bianca, quest’ultima ha fatto agli USA e al mondo un brutto scherzo.

A parer mio, peserà sulla politica estera americana, nei due rimanenti anni della presidenza Obama, l’interesse dei Repubblicani di presentarsi alle elezioni presidenziali del novembre 2016, dando all’elettorato l’impressione di non aver seguito una linea di confronto aprioristico, ideologico, volto soprattutto a mettere il presidente e i democratici in difficoltà. Addirittura, a parer mio, la maggioranza repubblicana al Congresso e al Senato, potrà rendere la vita più facile a Obama, purché tenga conto di quanto vuole l’elettorato. Beninteso, non penso che possa ricostituirsi la bi-partizanship, esistita nella guerra fredda, e neppure che si possa ricostruire per tempo la grande tradizione dei Repubblicani nella politica estera americana – da Eisenhower a Nixon e da Reagan a Bush sr. – caratterizzata dalla capacità di combinare visione e principi a livello strategico, con prudenza e flessibilità a livello tattico. Essa era stata perduta con Bush jr., sotto la spinta ideologica dei neoconservatori e le pressioni dell’opinione pubblica che chiedeva vendetta dopo gli attentati dell’11 settembre.

Il tempo è troppo ridotto. Lo scenario mondiale è in completo subbuglio. Troppo, per poter elaborare visioni globali. Soprattutto, i Repubblicani non hanno in mano la cloche del potere in politica estera, che rimane a Obama, e non dispongono neppure di personalità in condizioni di combinare idealpolitik strategica e realpolitik tattica. Forse la cosa migliore che potrebbero fare è quella di rivolgersi ai vecchi guru dell’internazionalismo repubblicano, come Kissinger a Baker, tanto per ricordarne due dei più eminenti. Inoltre, dovrebbero accordarsi con Obama perché rinnovi taluni incarichi chiave alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato – primo fra tutti il Segretario John Kerry – in modo che il presidente, prendendo le decisioni che gli spettano costituzionalmente, tenga conto degli orientamenti emersi chiaramente nelle elezioni di mid-term. Obama dovrebbe prendere al volo tale soluzione che sembra stiano elaborando i leader repubblicani del Congresso e del Senato, tanto più che molti Democratici lo stanno abbandonando, ritenendolo responsabile del disastro elettorale. C’è da augurarsi che un accordo possa essere trovato, con la marginalizzazione dei radicali del Tea Party. Tutti, in particolare gli europei – e tra essi soprattutto noi italiani, immersi in un arco di crisi a cui non sappiamo né possiamo far fronte – abbiamo bisogno della leadership e del sostegno di Washington.

Se la politica americana venisse bloccata da contumelie interne, sarebbe un disastro anche per noi.
L’agenda di politica estera che deve essere affrontata nel breve-medio periodo è molto densa. Ricordiamo i suoi temi principali: Ucraina e rapporti con la Russia, già sotto pressione per le sanzioni e il crollo del prezzo del petrolio, ma che non rinuncia alle sue iniziative provocatorie; attacco in Iraq e Siria contro l’ISIS e ridotta affidabilità degli alleati europei e mediorientali degli USA, in particolare della Turchia, reticente a impegnarsi, ma indispensabile al successo; caos in Libia, Siria e Yemen e atteggiamento ondivago di Washington nei confronti del regime militare egiziano, essenziale con l’Algeria per ripristinare un po’ di stabilità nell’Africa del Nord; mappa del Medio Oriente nel dopo-ISIS e nel dopo-Assad; conclusione entro il 24 novembre dei negoziati sul nucleare iraniano e collaborazione di Teheran nella lotta contro l’ISIS; ritiro dall’Afghanistan, sotto la crescente pressione dei Talebani; questione israelo-palestinese, resa difficile anche dal maggiore sostegno che Netanyahu dai Repubblicani in USA; contenuto da dare al Pivot to Asia, rimasto con Obama a livello di semplici chiacchiere; e altri ancora.

Nutrita è anche la partita concernente la politica estera economica. Molti sono i problemi su cui dovrà essere presa una decisione a livello nazionale, quali le correzioni all’Obamacare la tassazione, la costruzione dell’oleodotto che collegherà con gli USA le sabbie petrolifere della provincia di Alberta, lo sgravio degli oneri gravanti sulle imprese per la riduzione delle emissioni di CO2 , l’adeguamento del bilancio della difesa e dei fondi per la lotta all’Ebola; ecc..
L’attenzione sarà concentrata sui due grandi negoziati internazionali: la TranPacific Partnerhsip (TPP), con l’Asia Orientale e la sudamericana Alleanza del Pacifico, e la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) con l’Europa. I negoziati in corso potranno avere effetti positivi solo se verrà concesso al Presidente il c.d. “Fast Track”, cioè la possibilità di sottoporre il Trattato all’approvazione parlamentare tutto assieme, anziché articolo per articolo. In questo secondo caso, è facilmente prevedibile il suo blocco, in quanto verrebbero esercitati infiniti poteri di veto, dovuti agli interessi particolari delle costituencies e delle lobbies, rese ancora più influenti di quanto fossero in passato dal crescente costo delle elezioni negli Stati Uniti.

I vantaggi che i due trattati offrono alle imprese americane e il fatto che i Repubblicani sono decisamente a loro favore dovrebbero sbloccare gli attuali negoziati. Prima delle elezioni di mid-term la politica estera economica era subordinata a considerazioni “parrocchiali” di politica interna.
In conclusione, seppur Obama non possieda le capacità di compromesso che ebbe Clinton, anche lui alle prese con il Congresso e il Senato a maggioranza repubblicana, è prevedibile che la politica estera USA non ne soffra. Anzi, potrebbe trarne giovamento, correggendo le storture e le fantasiose retoriche, con l’applauso di molti circoli “sportivi” e di cui avevano approfittato politici più decisi e realisti, come Putin, più attenti ai fatti che alle parole.

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