Matteo Renzi vuole mettere a punto “una soluzione sistemica per la siderurgia nazionale”. Preservando e rilanciando la specificità industriale dell’Ilva, l’impianto con la produttività d’acciaio più elevata in Europa. Ma che nell’arco di due anni e mezzo ha visto ridurre di un terzo l’attività e di 2,5 miliardi di euro il patrimonio netto. Elementi essenziali, a fianco della certezza del diritto, per attrarre investimenti in una democrazia liberale e di mercato.
È questo il punto di vista, espresso nell’articolo “Ilva, il prezzo che il Paese non può pagare”, dall’inviato del Sole 24 Ore Paolo Bricco. Con lui Formiche.net ha approfondito le ultime novità e progetti emersi attorno a quello che un tempo costituiva l’ottavo gruppo siderugico del mondo.
È ipotizzabile un intervento del Fondo strategico italiano nel rilevare una quota azionaria in un’impresa come l’Ilva?
Se il governo pensa di utilizzare la leva di Cassa depositi e prestiti per rilanciare l’impianto di Taranto è necessario definire con attenzione le regole di ingaggio. L’ingresso di Cdp nel capitale del gruppo attraverso il Fondo strategico italiano deve essere ben regolato, visto che coinvolge i risparmi postali dei cittadini. E vi è un limite molto stringente.
Quale?
Tecnicamente i due istituti finanziari pubblici non possono realizzare investimenti in compagnie che sono in perdita. Lo vieta il loro statuto. Anche nello scenario transitorio della creazione di una new company risanata, bisogna chiarire il suo raggio d’azione. E spiegare se le sue iniziative industriali possano estendersi alle acciaierie di Piombino e Terni. Certo, non è pensabile un ritorno al puro “acciaio di Stato”.
A chi possono essere attribuite le maggiori responsabilità nel deteriorarsi del quadro all’Ilva di Taranto?
Si tratta di una realtà estremamente complessa, che vede responsabilità diffuse tra ceto politico, magistratura, famiglia Riva. Ma, oltre ad accertare le rispettive colpe, è necessario realizzare un’operazione “Ilva.0”.
In cosa consiste?
Bisogna tracciare una linea rossa iniziando a capire l’effettiva situazione dell’ambiente a Taranto. E superando le molteplici statistiche che si contraddicono l’un l’altra. Elemento intollerabile dal punto di vista civile, perché produce una “bolla di paura” in cui vivono i 195mila abitanti della città. Serve un’operazione di verità scientifica da cui ripartire in maniera costruttiva.
L’interpretazione delle norme da parte dei giudici ha provocato l’allontanamento degli investitori internazionali?
I magistrati operano secondo cultura giuridica e habitus professionale. E bisogna essere cauti nel valutarne le iniziative. A Taranto i giudici hanno privilegiato un canone unilaterale del diritto. Portando agli estremi l’obbligatorietà dell’azione penale e prefigurando il gravissimo reato di disastro ambientale a carico della famiglia Riva. Hanno seguito l’equazione “fermare l’impresa=fermare l’inquinamento”. Creando però un cortocircuito produttivo e occupazionale.
È fondamentale stabilire una distinzione netta tra colpa, dolo e grave negligenza nella legge sui reati ambientali all’esame del Parlamento?
Non entro nel merito di un tema molto complicato. Rilevo che il colosso indiano Arcelor Mittal – protagonista del negoziato per entrare in Ilva – non vuole pagare gli 1,8 miliardi previsti per il risanamento ambientale. Perché le responsabilità del passato appartengono ad altri. E perché, evidenziano i suoi manager, i livelli di impatto ecologico riscontrati nelle fabbriche europee del gruppo non sono dissimili rispetto a quelli registrati a Taranto.
Sono loro gli investitori pronti a rilevare l’impresa italiana?
Arcelor Mittal, affiancata dal gruppo Marcegaglia con una quota di minoranza del 10 per cento, rappresenta la realtà economica in pole position nella trattativa per l’acquisizione del capitale di Ilva. L’altra cordata in corsa è formata dalla società italiana Arvedi e dalla compagnia brasiliana di consulenza finanziaria Csn. Un’alternativa tuttora allo studio delle autorità. E che contempla in entrambi gli scenari un ruolo da chiarire per Cassa depositi e prestiti.
Alle prese con un laborioso percorso di privatizzazioni, Renzi rischia di promuovere una nuova statalizzazione della siderurgia per evitare la desertificazione industriale?
Sarebbe un bel paradosso. Molti analisti criticano un esecutivo che butta la palla avanti e poi fatica a gestirne il movimento. Ecco, nel terreno dell’acciaio il premier potrà mostrare di saper gestire un dossier rilevante di politica industriale.