L’anagrafe politica di Matteo Renzi va sempre più arricchendosi, o complicandosi, secondo i gusti. L’ombra, o il fantasma, di Bettino Craxi fu la prima ad essere scomodata di fronte alla impetuosa emersione politica dell’allora ancora sindaco di Firenze, ma già in corsa per scalare tutto il possibile e l’impossibile. Renzi, per quanto di origine e formazione democristiana, anche se a Craxi, in verità, fosse capitato da ragazzo di frequentare pure scuole cattoliche ed avere persino una mezza vocazione religiosa, sembrò subito assomigliare moltissimo al leader socialista scomparso nel 2000 per il modo di muoversi e per l’obbiettivo dichiarato di “cambiare verso” prima alla sinistra e poi al Paese: alla sinistra modificandone i connotati ideologici e al Paese riformandone radicalmente le istituzioni.
Poi, specialmente vedendolo all’opera come presidente del Consiglio, con i suoi orari, il suo modo di convocare collaboratori di ogni grado e tipo e impostare progetti ambiziosi, è toccato a Renzi di essere paragonato ad Amintore Fanfani. Un paragone, questo, che una ministra particolarmente vicina a Renzi come Maria Elena Boschi, anch’essa proveniente da famiglia toscana di militanza democristiana, ha in qualche modo ufficializzato parlandone in Parlamento. Poi la ministra ha messo la ciliegina sulla torta, anche a costo di procurare il cardiopalma alla componente del Pd di provenienza comunista, dicendo di preferire a tutti gli effetti la memoria di Fanfani a quella di Enrico Berlinguer.
Più prudentemente, ma sempre sullo stesso filone, un ex delfino di Fanfani come Arnaldo Forlani, riuscito però a scalare di suo segreteria della Dc e presidenza del Consiglio quando Fanfani era ancora forte, temuto e temibile, ha di recente attribuito a Renzi la figura di “nipotino” appunto di Fanfani. Al quale, d’altronde, lo stesso Renzi ha voluto paragonarsi mettendo, sia pure arbitrariamente, sullo stesso piano il successo elettorale di Fanfani nel 1958 e quello suo del 25 maggio scorso. Arbitrariamente, perché Fanfani alla guida della Dc prese nelle elezioni politiche appunto del 1958 il 42 per cento e rotti di voti del 93 per cento degli elettori accorsi alle urne, mentre Renzi nella scorsa primavera ha preso solo il 40,8 per cento di voti di poco più del 52 per cento degli elettori residenti in Italia accorsi alle urne, e per il rinnovo non del Parlamento nazionale ma di quello europeo.
Poi, sempre nella ricerca dei padri o nonni politici di Renzi, senza voler fare torto alcuno al padre vero, quello anagrafico, felicemente in vita, di antica militanza democristiana pure lui, è toccata la volta di Giulio Andreotti. Al quale il presidente onorario della Corte Costituzionale e professore Gustavo Zagrebelsky ha recentemente e negativamente paragonato Renzi attribuendogli la propensione a tirare a campare pur di governare. Una propensione già rimproverata ad Andreotti nella Dc da Ciriaco De Mita. Al quale Andreotti, per la settima volta presidente del Consiglio, rispose a modo inconfondibilmente suo dicendo: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Poi, a dire la verità, tirò politicamente anche le cuoia, ma in compagnia di tutto il suo partito, anzi di tutto il sistema della cosiddetta Prima Repubblica, travolto dal ciclone giudiziario di Tangentopoli.
L’animoso paragone di Zagrebelsky fra l’Andreotti in qualche modo decadente del tirare a campare e il Renzi oggi alla guida del governo si può capire sul piano umano per avere il presidente del Consiglio liquidato troppo sbrigativamente nei mesi scorsi le critiche del presidente onorario della Corte Costituzionale, e di altri costituzionalisti, alla sua riforma obbiettivamente un po’ troppo pasticciata o improvvisata del Senato della Repubblica. Che non a caso, del resto, sta seguendo un percorso parlamentare più accidentato delle previsioni o dei desideri renziani. Ma il presidente del Consiglio sta tentando di suo di dare al paragone con Andreotti un contenuto più corposo di quello tentato da Zaghebrelski.
Con le sue ultime iniziative politiche e parlamentari, ridimensionando dopo una colazione forse indigesta il cosiddetto “patto del Nazareno” con Silvio Berlusconi sulle riforme, e forse anche su altro, e inseguendo un’intesa con i grillini, appena sperimentata con l’elezione parlamentare di uno dei due giudici mancanti della Corte Costituzionale e del membro mancante del Consiglio Superiore della Magistratura, Renzi ha assunto i panni dell’Andreotti dei “due forni”. L’Andreotti cioè convinto che la Dc dovesse essere disposta a una totale intercambiabilità degli alleati pur di governare, magari anche solo per tirare a campare quando non fosse possibile governare davvero.
Mi riferisco all’Andreotti che negli anni Settanta sostituì brevemente i socialisti con i liberali al governo. Ma pochi anni dopo si liberò degli uni e degli altri per procurarsi l’appoggio esterno dei comunisti a due suoi governi interamente democristiani. E nel 1983 accettò di fare il ministro degli Esteri nel primo governo di coalizione guidato da Craxi. E nel 1989 tornò alla guida del governo con socialisti e liberali insieme, riedizione aggiornata del pentapartito craxiano del 1983.
Ma erano altri tempi. Ed altri uomini. Renzi aveva i calzoni corti. Ora li ha lunghi, ma abbastanza?
Francesco Damato