Si fa presto a raccomandare prudenza o ad esprimere auspici di una chiara e rapida uscita dalla situazione d’incertezza politica, se non la vogliamo chiamare vera e propria confusione, esistente dall’inizio di questa legislatura, che già porta lo scomodo numero 17, e aggravatasi con l’annuncio giornalistico della decisione del presidente della Repubblica di dimettersi alla fine dell’anno, o nei primi giorni o settimane del nuovo. Un annuncio praticamente confermato dallo stesso capo dello Stato, pur nella rivendicazione orgogliosa della propria autonomia nella scelta del momento preciso in cui formalizzare l’evento, e nell’assicurazione ch’egli svolgerà pienamente le sue funzioni sino all’ultimo momento. Per cui giornali, partiti, governo e – perché no? – concorrenti aperti o nascosti alla sua successione sono stati cortesemente invitati a non considerarlo da qui alla sua effettiva uscita dal Quirinale un’anatra zoppa, cioè un presidente dimezzato, al quale poter chiedere o dal quale potersi attendere ciò che fa comodo al reclamante di turno.
Rimane una bomba ingombrante, per quanto buttata giù dell’aereo con una specie di paracadute, destinato a rallentarne la caduta ma non ad evitarne l’esplosione nell’impatto, l’annuncio della decisione di Napolitano di anticipare ulteriormente la fine del suo secondo mandato. Che lui stesso aveva accettato nell’aprile del 2013 indicandone tempi “brevi” o “non lunghi” rispetto agli altri sette anni garantitigli dalla Costituzione.
Tutto, dopo l’annuncio o preannuncio delle dimissioni del capo dello Stato, si è terribilmente complicato. In particolare, si è complicato per il presidente del Consiglio Matteo Renzi e per le sue tentazioni, per quanto smentite formalmente, di mettere a frutto con elezioni anticipate il grosso vantaggio acquisito rispetto agli altri attori della politica con quel 40,8 per cento dei voti raccolto poco più di cinque mesi fa, nel rinnovo del Parlamento europeo. Ora Renzi sa che per le elezioni anticipate deve attendere il successore di Napolitano, disposto a quell’ulteriore scioglimento prematuro delle Camere che il presidente in carica non ritiene invece utile al Paese, almeno prima di disporre di una nuova legge elettorale, dopo i tagli apportata dalla Corte Costituzionale a quella in vigore.
Tutto si è complicato anche per Silvio Berlusconi, nonostante egli abbia mostrato di vedere nell’annuncio delle ormai vicine dimissioni di Napolitano un aumento del proprio potere contrattuale sulla controversa riforma elettorale, almeno nell’ultima edizione propostagli da Renzi per modificare il testo trasmesso dalla Camera al Senato. Renzi è abbastanza disinvolto per mettersi d’accordo sulla riforma elettorale con Beppe Grillo, o con gli ex grillini di Palazzo Madama, senza perdere l’appoggio delle altre e inquiete componenti della maggioranza, cioè i centristi, o simili, di Angelino Alfano, Pier Ferdinando Casini e amici sparsi e divisi del senatore a vita Mario Monti.
Ma non è per niente detto che Napolitano voglia concedere a Renzi tutto il tempo necessario per portare a termine una riforma elettorale così accidentata, che avrebbe comunque bisogno di un ulteriore passaggio parlamentare. E se Napolitano si dimettesse prima, come a Berlusconi farebbe comodo, Renzi si troverebbe di fronte al problema prioritario dell’elezione parlamentare del nuovo presidente della Repubblica. Ma su questo ben più difficile passaggio il presidente del Consiglio, sia che insegua l’accordo con Grillo piuttosto che con Berlusconi, sia che torni all’intesa con Berlusconi, potrebbe incorrere nello stesso naufragio dell’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani un anno e mezzo fa. E potrebbe perdere segreteria del partito e presidenza del Consiglio contemporaneamente, come per altri motivi accadde nel 1959 ad un leader democristiano al quale lui si è imprudentemente paragonato, o lasciato paragonare dalla sua fedelissima Maria Elena Boschi: Amintore Fanfani. Il quale nel 1958 aveva vinto le elezioni politiche con una percentuale di voti apparentemente simile a quella di Renzi nelle elezioni europee del maggio scorso. Apparentemente, perché Fanfani aveva preso il 42 e rotti del 93 per cento dei votanti, contro 40,8 per cento del 52,7 o 57,2 dei votanti di cinque mesi fa con Renzi, escludendo o includendo il dato un po’ farlocco degli elettori italiani all’estero.
In attesa di riforma elettorale, successione a Napolitano e quant’altro, Renzi deve intanto garantirsi l’approvazione della legge di cosiddetta stabilità, la contestata riforma del mercato del lavoro, portare avanti la riforma del Senato arenatasi alla Camera e continuare a vedersela con i tanto giustamente odiati “burocrati”, ma anche con tanti non meno scomodi politici della Commissione dell’Unione Europea e dintorni. Auguri e figli maschi.