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Articolo 18 alla Matteo Renzi

Stupisce l’infastidito stupore del Nuovo Centrodestra sulle ultime novità del Jobs Act. La riforma dell’articolo 18 entra nel disegno di legge delega della riforma del lavoro approvato ieri dalla Camera. I passi indietro criticati da alfaniani e montiani di Scelta Civica in verità sono la prevedibile conseguenza di ondeggiamenti, slogan tonitruanti e testi vaghi sui quali finora si è discusso. Inoltre il risultato di ieri è anche l’effetto della volontà dei vertici del Pd di tendere una mano alla minoranza Pd e dunque cercare di disinnescare la dirompenza dello sciopero generale indetto dalla Cgil per il 5 dicembre.

I PUNTI DELL’INTESA

Ecco i termini dell’accordo nel Pd che destano mugugni e perplessità in Ncd e in Scelta Civica. Per i licenziamenti disciplinari dichiarati nulli da un giudice, sarà previsto il reintegro nel posto di lavoro. Tutela reale (dunque reintegro) anche per quelli discriminatori. Indennizzo monetario, invece, per i licenziamenti dovuti a crisi dell’azienda.

LA TEMPISTICA

Il testo dovrà tornare al Senato per una terza lettura, perché nella versione approvata da Palazzo Madama non c’era alcun riferimento all’articolo 18. L’esecutivo si è impegnato a varare i decreti attuativi entro la fine dell’anno per permettere l’applicazione della riforma fin dal primo gennaio 2015.

LE TAPPE

Ma ripercorriamo ora velocemente le tappe che hanno condotto all’esito di ieri. I cambiamenti di impostazione, le improvvise avanzate e le repentine retromarce, oltre a molti slogan, non sono mancati. Ecco le principali versioni di Renzi, del Pd e della maggioranza. e come sono cambiate nel tempo.

LE DIVERSE VERSIONI

1. Il premier Matteo Renzi, dopo interviste e dichiarazioni chiare e rottamatorie sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, va da Fabio Fazio a Che tempo che fa e annuncia urbi et orbi: il reintegro in caso di licenziamento illegittimo è un ferro vecchio, ostacola investimenti e assunzioni delle imprese, le istituzioni internazionali chiedono di abrogarlo, dunque avanti tutta.

2. Il presidente del Consiglio mette il timbro a un emendamento della maggioranza di governo nella commissione Lavoro del Senato che mette nero su bianco il superamento dell’articolo 18, grazie al coordinamento del senatore e giuslavorista Pietro Ichino (Scelta Civica), con il plauso dell’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi (Ncd), che ha rimarcato l’innovazione riformistica e liberistica sull’articolo 18.

3. Il premier e segretario nella direzione del Pd del 29 settembre approva e fa approvare un ordine del giorno (130 sì, 20 no e 11 astenuti) in cui si legge: “Una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l’incertezza e la discrezionalità di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo la possibilità del reintegro. Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie“. Ovvero, una marcia indietro rispetto a Renzi 1 e a Renzi 2, notarono molti addetti ai lavori.

4. Dopo tanto sbraitare contro il reintegro, comprese ramanzine e rabbuffi distribuiti a destra e a manca, il premier fa presentare dal governo al Senato per la fiducia al disegno di legge Jobs Act un maxi emendamento in cui non si fa alcun esplicito cenno all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ovvero un’ulteriore retromarcia rispetto a Renzi 1, Renzi 2 e Renzi 3.

Infine, la quarta versione di ieri, che torna all’impostazione del documento votato dalla direzione Pd del 29 settembre. Tanto rumore per nulla sull’articolo 18?



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