Aprendo un evento dell’Atlantic Council il 7 novembre, il generale Lloyd Austin (capo del Comando Centrale americano, quello che segue le operazioni nella zona di mondo tra Egitto e Afghanistan, compresi) ha detto: «Il governo yemenita è sotto una pressione enorme da più fronti; c’è il pericolo di perdere un partner chiave tra i nostri alleati contro il terrorismo».
Non che fosse una novità: la rivolta sciita degli Houthi si affianca a quella condotta dai sunniti qaedisti dell’Aqap, e il futuro del Paese sembra quanto mai più vicino a una guerra civile che alla stabilità. La novità, semmai, è che un alto comandante militare americano, in diretto e coordinato rapporto con la Casa Bianca, è uscito con un’ammissione pubblica del genere.
L’amministrazione Obama, ha infatti “venduto” più volte l’esperienza yemenita come una storia di successo nella lotta al terrorismo – in particolare ad al-Qaeda. L’ultima volta (cronologicamente, ma forse la più importante), è stato in occasione della presentazione della strategia da adottare, tout court, contro lo Stato Islamico: Obama aveva detto che il piano contro il Califfato sarebbe stato basato sul “modello-Yemen” – considerato, dal Prez, un modello di successo.
Ma lo Yemen – il vero Yemen, non quello immaginato da Obama – sta raccontando una storia tutta diversa. Le ricche, quanto complesse, fluttuazioni politiche locali, in grado di creare disequilibri regionali, vanno ben oltre il martellamento dei droni americani contro i capi qaedisti locali – dall’inizio dell’anno s’è perso il numero dei raid aerei, quattro già in novembre. con una ventina di vittime (e svariate polemiche).
Vero che il presidente yemenita Mansur Hadi, si è dimostrato un alleato malleabile per Washington, permettendo non solo agli UAV americani di sorvolare liberamente il proprio spazio aereo, ma difendendo i drone strike, nonostante le proteste della popolazione locale per l’ingente numero di vittime civile procurate dagli attacchi (anche per errori di targeting).
Ma mentre gli USA – e il governo locale – si concentravano alla lotta contro l’affiliazione regionale di al-Qaeda, l’Aqap (al-Qaeda nella Penisola Araba), una delle entità più attive e pericolose a livello globale, cresceva esponenzialmente la minaccia degli Houthi. Gli sciiti ribelli poche settimane fa sono arrivati fino alla capitale Sana’a (poi, il 21 settembre, c’è stato un flebile accordo di pace): sono spinti ideologicamente (e militarmente) dall’Iran e su i loro cartelli si legge spesso “Morte all’America”.
Gli Houthi, nei loro moti settembrini, sono riusciti a sgominare l’Aqap da alcune roccaforti, meglio di quanto l’esercito governativo fosse riuscito finora. Il problema è che il sentimento settario si è infiammato. Con i qaedisti che non hanno perso l’occasione per alimentare la propaganda con il sangue degli attacchi droni americani, in modo da infiammare i sunniti sulla lotta settaria contro la loro confessione: lotta che, visto gli attacchi diretti soltanto verso i membri di al-Qaeda, la narrazione sunnita racconta come fosse condotta fianco a fianco da USA e sciiti. In tutto, al sud una volta indipendente, si sta sviluppando il Southern Movement, un’entità secessionista che ha dato al governo l’ultimatum del 30 novembre, poi sarà lotta.
Tutto l’opposto, insomma, di una storia di successo: la sicurezza del Paese è vacillante, le tanto attese elezioni (spinte da Washington) saltano un appuntamento dopo l’altro, la stabilità stenta a fare ritorno.
Se questo è il modello da seguire, stiamo freschi.