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Articolo 18 e Jobs Act, ecco chi ha vinto, chi ha perso e chi ha pareggiato

Bisogna riconoscerlo: in quanto a scelte tattiche Matteo Renzi è imbattibile. La notizia delle prossime dimissioni del Presidente della Repubblica ha messo in moto un quadro politico già agitato di per sé.

Il premier ha capito che, per garantirsi la possibilità di votare a primavera, doveva rimettere in agenda la legge elettorale rimasta ‘’in sonno’’ da mesi. Così l’Italicum è salito al primo posto nelle priorità dell’attuale fase. In poche ore Renzi è riuscito ad accontentare sia il Ncd e i ‘’cespugli’’ centristi (promettendo loro una soglia d’accesso sostenibile) e, nel medesimo tempo, anche Silvio Berlusconi, lasciando intendere che è tuttora lui l’interlocutore preferito (addirittura consentendogli la sottoscrizione di un documento condiviso), che le sue aziende non corrono rischi e che, al momento opportuno, potrebbe anche ricevere in dono la testa di Angelino Alfano (riportando la quota minima al fatidico 5%).

Rimaneva, inquieta, l’opposizione interna, la sola in grado di impensierire il premier-ragazzino. Così, senza pensarci su troppo a lungo, Renzi ha deciso di chiudere il fronte del Jobs act Poletti 2.0, con l’obiettivo di neutralizzare una parte importante della sinistra Pd consegnando un ruolo di mediazione a Cesare Damiano che è pur sempre uno degli esponenti più autorevoli di quel gruppo di generali senza truppe.

E il Nuovo Centrodestra? La risposta sprezzante che Renzi ha dato all’incauta richiesta di un vertice di maggioranza sta a dimostrare che da quella parte non temeva reazioni meritevoli di una qualsivoglia considerazione. Dopo qualche mal di pancia iniziale gli alfaniani si sono precipitati a trattare. Anzi, Maurizio Sacconi ha dichiarato ai tg che l’accordo è vicino, che occorre solo di mettere a punto le fattispecie di licenziamento disciplinare nelle quali prevedere la reintegra.

Poi, dopo un incontro con il ministro Giuliano Poletti si è dimostrato ancora più ottimista, come se anche lui fosse stato presente – in spirito – in quella riunione della direzione Dem, convocata, a fine settembre, mentre l’arcangelo Gabriele effondeva benefici auspici sorvolando Piazzale del Nazareno.

In sostanza, oggi tutti (sia quelli che non lo approvarono perché contrario alla ‘’cultura dei diritti’’, sia quelli che denunciarono un vistoso cedimento alla sinistra trinariciuta) sembrano riconoscersi nell’ordine del giorno fatidico votato il 29 settembre.

Come se non bastasse, Matteo Balilla Renzi (per domare qualsiasi improbabile conato di ribellione alla sua destra) ha fatto roteare in aria la clava di un voto di fiducia per abolire qualche tipologia di lavoro precario. Come a dire: attenzione, la legge Biagi è sotto tiro. E avrebbe la possibilità di farlo, vista la dabbenaggine dei suoi alleati che si sono attaccati a una dozzina di parole prive di significato (contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio) come se esse custodissero la leva con cui sollevare, fino a veder le stelle da vicino, il nuovo diritto del lavoro, mentre non si accorgevano delle concessioni che venivano assicurate all’idea antistorica  del ‘’prevalere’’ del contratto a tempo indeterminato.

Tra i protagonisti della vicenda – chi scrive lo aveva previsto e denunciato – qualcuno ha compiuto il medesimo errore in cui incorse durante le discussioni preliminari sul disegno di legge Fornero, nella primavera del 2012, in tema di mercato del lavoro. E finì per trovarsi un disegno di legge scritto da un giurista-questurino, relativamente alle regole dell’accesso, a fronte di una rigidità in uscita sulla quale era stato spruzzata appena una nuvola di borotalco.

In un Paese come l’Italia dove i giudici reintegrano i ladri sostenendo che, in fondo, hanno rubato poco, era ragionevole pensare che la tutela per un nuovo assunto, accusato di un comportamento infamante che risultasse, in giudizio, manifestamente infondato, potesse avere soltanto un carattere risarcitorio? Una soluzione idonea, che avrebbe salvato i cavoli del lavoratore e la capra del datore, era a portata di mano; ad essa stava lavorando (con quale mandato viene da chiedersi adesso?) un gruppo ristretto presso la presidenza del Consiglio, nella prospettiva di varare al più presto il relativo decreto delegato.

Rispetto alla impostazione che quel gruppo stava dando al problema, si sarebbe potuto anche fare di più e meglio aggiungendo alla dozzina di parole canoniche del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, le frasi seguenti: ….che includa una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l’incertezza e la discrezionalità di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo la possibilità del reintegro. Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli di natura disciplinare, di cui sia provata la  manifesta insussistenza del fatto contestato nella misura in cui esso prefiguri una lesione della dignità e della figura morale e professionale del lavoratore, ferma restando l’opzione per il datore soccombente di optare per l’erogazione di una indennità risarcitoria, pari a 1,5 mensilità per ogni anno di anzianità, entro il limite massimo di 36 mensilità di retribuzione globale di fatto’’.

L’emendamento avrebbe assunto, per quanto riguarda il licenziamento economico, il testo molto chiaro della direzione del Pd del 29 settembre. Quanto ai licenziamenti disciplinari si sarebbe ammessa, nei casi più gravi, la reintegra, concedendo, tuttavia, al datore l’opzione di monetizzare anziché riassumere. Al giudice sarebbe rimasto soltanto il compito di applicare la legge lungo un percorso già predeterminato.


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