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Così si riforma la Giustizia. Parla Michele Vietti

Tempi certi nel civile, modifica del regime di prescrizione nel penale “che oggi premia chi riesce a far perdere tempo e ad allungare il processo”, riduzione della generalizzata possibilità di utilizzare tre gradi di giudizio per ogni controversia. Ecco la riforma della Giustizia secondo Michele Vietti. Per quattro anni vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, prima sottosegretario alla Giustizia e avvocato di lungo corso, Vietti analizza con Formiche.net la riforma sul processo civile blindata dal governo in Parlamento con la fiducia, dice la sua sullo scontro in atto tra Renzi e le toghe, commenta le ultime sentenze che hanno destato polemiche e clamore mediatico, come quella nel processo Cucchi, e quanto ai suoi impegni politici futuri (in Italia Unica di Corrado Passera?) dice…

Come giudica la riforma della Giustizia che va delineandosi?
Anzitutto non parlerei in generale di “riforma della giustizia”, ma di singoli interventi su specifici settori. All’inizio il governo ha annunciato alcuni punti programmatici. Poi si è avuta un’improvvisa accelerazione col decreto-legge sulla giustizia civile, convertito con la fiducia. Quanto ai contenuti, è apprezzabile l’incentivo sui sistemi alternativi di risoluzione delle controversie civili, la cui facoltatività potrebbe però minarne l’efficacia. Vedo qualche possibile criticità nel cosiddetto divorzio-breve, dove si rischia di comprimere oltremodo i diritti del coniuge più debole.

Tra Renzi e i magistrati ci sono stati momenti di muro contro muro, per esempio sui 45 giorni di ferie…
Nella vicenda, c’è stato anche qualche aspetto propagandistico, come le ferie dei magistrati, che sia da parte governativa che da parte dei magistrati è stato invocato al di là della sua reale incidenza rispetto al drammatico problema del ritardo nella risposta di giustizia, le cui cause vanno certamente cercate altrove.

Alcuni fanno notare la mancanza di tasselli importanti nella riforma come norme sulla corruzione e l’autoriciclaggio e le addebitano allo zampino di Berlusconi con il patto del Nazareno. E’ così?
Sulla corruzione credo occorra attendere che la giurisprudenza si assesti sull’interpretazione della legge Severino, prima di pensare a nuove modifiche. L’autoriciclaggio è un tema delicato, perché nel nostro sistema vige il principio del ne bis in idem sostanziale: un soggetto non può commettere con un solo comportamento due diversi reati. E il governo sta sperimentando quanto sia difficile costruire il reato di autoriciclaggio senza cadere in questo divieto.

Quali sono secondo lei i miglioramenti possibili sulla riforma?
Una riforma che ambisca a essere veramente efficace deve puntare a una riduzione della generalizzata possibilità di utilizzare tre gradi di giudizio per ogni controversia, a prescindere dalla sua rilevanza. Nel civile occorre garantire tempi certi, prevedendo maggiore duttilità nel rito processuale. Nel penale una seria riforma dovrebbe partire dalla modifica del regime della prescrizione, che oggi premia chi riesce a far perdere tempo e ad allungare il processo.

Capitolo responsabilità civile dei magistrati. Su questo fronte l’Anm ha minacciato lo sciopero e il Csm ha parlato di messa a repentaglio dell’indipendenza della magistratura. Cosa ne pensa?
Molto rumore per nulla, direi. Tutti i testi sinora presentati dal Governo e anche quelli opportunamente corretti in Parlamento mantengono fermo il principio che è lo Stato a rispondere in via diretta nei confronti dei cittadini. Certo non si può negare che il giudizio di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato così com’è non funzioni, visto il numero irrisorio di effettive condanne. Il filtro attualmente esistente è troppo selettivo e lo si potrebbe modificare, se non addirittura eliminare.

Come si risolve il problema del correntismo nella magistratura?
Non penso che la magistratura, nel suo complesso, sia così affezionata all’appartenenza. Credo invece che la gran parte dei magistrati sia consapevole di essere parte di un ordine preposto a distribuire i torti e le ragioni nella collettività e a garantire così la legalità e la coesione sociale. Per farlo i magistrati devono essere imparziali e preparati. L’aggregazione culturale delle correnti è utile se stimola questa consapevolezza nella valorizzazione delle inevitabili differenze; diviene dannosa se la logica della “casacca” serve solo per fare carriera.

Come ha visto da vicepresidente del Csm, il lungo stallo che si trascina sulle nomine della Consulta in Parlamento?
Effettivamente tempi e modi dell’’elezione non solo dei giudici costituzionali, ma anche dei membri laici del Csm, destano più di una perplessità. Penso che il problema non stia tanto nell’elevatezza dei quorum elettivi, che saggiamente i Costituenti hanno voluto garantire in relazione all’obiettiva delicatezza delle funzioni da ricoprire. Credo invece che ciò che è accaduto sia il sintomo di una frustrazione dei parlamentari, insofferenti a un sistema dirigistico che non concede spazio al confronto. Certo sarebbe auspicabile un maggior senso istituzionale: il rinnovamento della nostra classe politica è stato certamente radicale, ma la mancanza di esperienza qualche volta gioca brutti scherzi…

Sentenza Cucchi, Aquila, Saviano. Tre sentenze che hanno fatto molto discutere. Lei che idea si è fatto?
Sono tre vicende su cui ancora non è stata messa la parola “fine”, dal momento che quei processi sono ancora in attesa della sentenza definitiva. Il ribaltamento degli esiti processuali non è un evento eccezionale. Certo, il nostro è un sistema in cui sino alla fine tutto può essere rimesso in discussione e questo non solo allunga i tempi del processo, ma può potenzialmente favorire un “effetto lotteria”.

Ultima domanda extra-Giustizia. Lei ha presentato il libro di Corrado Passera a Torino e si parla di un suo avvicinamento a Italia Unica. E’ così?
Ho accettato l’invito di Corrado Passera a presentare il suo libro a Torino insieme ad altri esponenti politici che non mi risulta abbiano abbandonato le proprie formazioni di appartenenza. Il fatto che io, dopo l’esperienza istituzionale, non ne abbia più, non significa che debba subito procurarmene un’altra.


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