Stabilizzazione della Libia, truppe egiziane per la Palestina, sicurezza di Israele, linea dura verso Morsi e azione comune contro terrorismo. Sono alcuni dei punti del decalogo del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, che da oggi è in Italia per 48 ore di visite istituzionali (incontri con Matteo Renzi, Giorgio Napolitano, Papa Francesco prima di dedicarsi ad un meeting dell‘Italian-Egyptian Business Council, co-guidato da Mauro Moretti, ad di Finmeccanica, e Khaled Abu Bakr) per poi proseguire in suo tour europeo verso Parigi.
Non solo cooperazione italo-egiziana, con la firma di un memorandum di intesa commerciale, ma anche molti dossier di politica estera al centro dell’agenda.
LIBIA
Parola d’ordine è stabilizzazione. Secondo l’ex generale gli scenari di Tripoli e Bengasi, dominati oggi “dal caos” (ha ammesso ieri dalle colonne del Corriere della Sera), sono terreno fertile per la nascita di basi jihadiste di “estrema pericolosità”. Perché, si chiede, dopo la guerra che ha eliminato Gheddafi la Libia è stata abbandonata?
STRATEGIA
Nuovi interventi militari sono da escludere secondo la visione di Al-Sisi (nega che l’Egitto ne abbia condotti) che invece invita la Comunità internazionale a scegliere l’esercito nazionale libico e “nessun altro”. Il riferimento è al sostegno materiale che consiste in “aiuti, equipaggiamenti, addestramento” ad appannaggio esclusivo dell’esercito regolare.
MIGRAZIONI
Ma Libia fa, alle latitudini italiane, sempre più rima con flussi migratori, con la novità della missione Triton dopo Mare Nostrum: un altro elemento complicato del post Gheddafi. Sul punto non solo il presidente porge la solidarietà al nostro Paese (“l’Italia non può affrontare il problema da sola”) ma richiama a una strategia più volte ipotizzata in passato ma che non ha poi trovato concreta attuazione: creare lavoro nei Paesi di origine, perché “i diritti umani si difendono anche così”.
ISRAELE
All’orizzonte potrebbe profilarsi una terza intifada? Al primo punto dell’agenda di Al Sisi c’è la volontà di “stemperare questa crisi, che ha un impatto sull’intera regione”. E propone di dare “speranza ai palestinesi” lavorando per uno Stato che li faccia “vivere in pace a fianco del popolo israeliano”. La tesi dell’ex generale è che “tutti abbiamo bisogno di Stati” ammette a Repubblica, in questa direzione va letta la proposta di garantire “all’emergente Stato palestinese e a Israele che nessuno dei due possa rappresentare un pericolo per l’altro”.
INSTABILITA’
Questa la ricetta egiziana per abbattere il rischio instabilità nell’intera macro regione, ma a patto che alla base dell’intera strategia ci sia il coraggio. Quello stesso che condurrà ad una “situazione nuova nell’intera regione”. L’Egitto si dice pronto a farsi vettore di precise garanzie che la pace “non rappresenterà un rischio né per i palestinesi né per gli israeliani”.
HAMAS
Ma nulla potrà essere pacificamente programmato se non saranno disinnescati i pericoli legati all’estremismo. Al Sisi ritiene che non si può separare “lo Stato Islamico da ciò che sta accadendo in Afghanistan o dal gruppo Ansar Bait al-Maqdis“. E’ la principale ragione per cui questi gruppi non sono e non saranno mai delle “entità separate tra loro”, piuttosto si rende imprescindibile una strategia non solo militare. Il riferimento è a misura “globali”, per evitare lo spauracchio di una guerra di religione. Con una grossa fetta di responsabilità affidata ad un periodo di transizione iniziale che “sarà determinante”. E con l’Egitto prontissimo a sostenere la transizione.
SCENARI
“Il terrorismo è composto da tante facce di una stessa medaglia” è il ragionamento di Al Sisi, ma la risposta degli Stati democratici dovrà gioco forza parlare con un alfabeto diverso, coinvolgendo anche temi delicatissimi e direttamente proporzionali alla rivolta come la lotta alla povertà. E sulle accuse rivoltegli di aver usato la forza per stemperare azioni e strategie dei Fratelli musulmani (chiesta la pena di morte per il suo predecessore regolarmente eletto Mohammed Morsi) Al Sisi mette l’accento sul fatto che nel luglio del 2013, quando Morsi cadde sotto la spinta di milioni di egiziani, “i Fratelli musulmani avrebbero potuto collaborare con le Forze armate, nessuno li perseguitava, si muovevano liberamente. Invece si dettero alla violenza e crearono una occupazione illegale”.