La complessità della crisi in Libia – incrocio di molteplici interessi contrapposti e campo di una battaglia che travalica i suoi stessi confini – è essenziale per leggere gli eventi che l’hanno rapidamente portata sul baratro della guerra civile.
LA NARRATIVA DEL TERRORISMO
La crescita dei fermenti jihadisti, anche a causa dell’orrore dell’Isis, arrivato a Derna, è preoccupante. Ma il rischio, richiamato da molti analisti, è quello di cadere nell’errore di utilizzare la narrativa del terrorismo per raccontare e interpretare vicende ben più complesse, che non riguardano solo Tripoli.
Da una parte ci sono le città controllate dai miliziani filo-islamisti, al comando a Tripoli e Bengasi, politicamente guidati dalla Fratellanza musulmana; dall’altra il governo e il Parlamento – sciolto da una sentenza della Corte suprema – riconosciuti internazionalmente, rifugiatisi a Tobruk, e costretti ad appoggiare le milizie dell’ex comandante di Gheddafi, per non perdere del tutto il controllo del Paese. La Libia è ormai un Paese provato, spaccato a metà, e non solo idealmente. Una frattura che non si manifesta soltanto attraverso uno scontro tra “blocchi”, ma anche in una vera e propria moltiplicazione di enti, cariche politiche, istituzioni, di cui è stato testimone il difficile vertice Opec concluso da poco a Vienna. Obiettivo: controllare le risorse economiche del Paese. Ma sulle mosse di entrambe le fazioni incidono non solo divisioni interne al Paese, ma anche fortissimi interessi economici e geopolitici.
FRANCIA ED EGITTO
La Francia ha una posizione interventista, molto simile a quella dell’Egitto. Il Cairo è intervenuto militarmente in Cirenaica, insieme agli Emirati Arabi Uniti si è dimostrato ben disposto a finanziare alcuni gruppi e per questo considerato da una parte del Paese come un elemento di instabilità.
Dopo il fallimento di tutti gli sforzi diplomatici messi in campo negli scorsi mesi, cresce sempre più l’idea di un intervento militare, che potrebbe essere condotto da Paesi confinanti, come l’Egitto. Un’opzione vista tuttavia di cattivo occhio da chi teme che dietro il finanziamento delle differenti fazioni che si affrontano in Libia vi sia proprio l’ombra di Stati vicini che vogliono allungare le mani sulle risorse di Tripoli. Chi si oppone a questo scenario chiede che nel dibattito sui destini del Paese si coinvolgano maggiormente le correnti islamiste, tenute finora ai margini e per questo rifugiatesi in alleanze “contro natura” con gruppi para-terroristi.
Nell’intervista al generale Khalifa Haftar realizzata da Francesco Battistini sul Corriere della Sera, l’ex militare (che ha ammesso di ricevere un forte sostegno economico proprio dal governo di Al-Sisi) suona la sveglia all’Occidente e afferma di combattere “nell’interesse del mondo intero“. “La prima linea passa per la Siria, per l’Irak. E per la Libia. Gli europei non capiscono la catastrofe che si rischia da questa parte di Mediterraneo. Attraverso l’immigrazione illegale – aggiunge il generale –, ci arrivano jihadisti turchi, egiziani, algerini, sudanesi. Tutti fedeli ad Ansar al Sharia o all’Isis: quanti italiani sanno che davanti a casa loro, a Derna, è stato proclamato il califfato e si tagliano le teste? L’Europa deve svegliarsi“.
L’ex comandante di Gheddafi, poi esiliato negli Stati Uniti, ricorda Anna Mazzone su Panorama, “da diversi mesi è a capo dell’operazione Karama (dignità), che fronteggia sul campo gli estremisti islamici di Alba libica e Ansar al Sharia. Due organizzazioni terroristiche che hanno giurato fedeltà al Califfato di Abu Bakr al Baghdadi, il leader dello Stato islamico già presente in Siria e in Irak“. Si è dato una deadline: entro il 15 dicembre il Parlamento libico dovrà reinsediarsi a Tripoli.
UK E ITALIA
Poi c’è il Regno Unito crede che il dialogo e una riconciliazione nazionale siano ancora possibili, ma non esclude del tutto il ricorso a delle operazioni di stabilizzazione. Una posizione intermedia a quella di Parigi e Roma.
E infine c’è l’Italia, disposta a partecipare solo ad una missione di pace stabilita in sede Onu, seppur con una strategia ancora poco chiara. Con la visita, appena terminata, del presidente Al-Sisi a Roma, l’asse tra Egitto – che spinge per un intervento – e Italia è sembrato rafforzato. Tra i due Paesi c’è un rapporto fatto di relazioni economiche e commerciali, ma anche di una convergenza su temi di politica estera e sicurezza, compreso il contrasto al jihadismo in Libia.
LA POSIZIONE DI ROMA
Ma qual è la vera posizione del governo italiano? Rispondendo a Repubblica, il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha ribadito che Roma continuerà ad assumere, per il momento, una posizione prudente, simile a quella tenuta nel recente passato. “Non dobbiamo ripetere l’errore di mettere gli stivali sul terreno prima di avere una soluzione politica da sostenere“. ha detto il titolare della Farnesina. “Ma certo un intervento di peacekeeping, rigorosamente sotto l’egida Onu, vedrebbe l’Italia impegnata in prima fila. Purché preceduto dall’avvio di un percorso negoziale verso nuove elezioni garantito da un governo di saggi“. Parole che chiariscono come l’Italia, rappresentata nel Paese dall’ambasciatore Giuseppe Buccino, non voglia schierarsi né con Tripoli, né con Tobruk. Roma potrebbe essere uno dei pochi interlocutori in grado di evitare un intervento militare e far superare l’attuale fase di stallo, favorendo la ripresa dei colloqui tra le parti. E non è un caso che la sede diplomatica italiana sia l’unica “di peso” rimasta a Tripoli. La situazione, però, potrebbe di colpo peggiorare se il Paese andasse verso la temuta “divisione” di fatto.
COSA PUÒ FARE L’ITALIA
Come evitare questo tracollo? L’Italia – scrivono, su Limes, Karim Mezran (Atlantic Council), Mattia Toaldo (Ecfr) e Arturo Varvelli (Ispi) – dovrebbe procedere su più fronti, da un lato rinsaldando “il gruppo di contatto informale che si è creato in questi mesi tra americani e alcuni grandi Paesi europei“. La presidenza di turno dell’Ue “dovrebbe essere l’occasione per creare attenzione verso la Libia“. E, allo stesso modo, “la visita del presidente egiziano Al-Sisi in Italia avrebbe dovuto fornire l’opportunità per chiarire le differenze tra l’approccio di Roma e la lotta senza quartiere alla Fratellanza musulmana che il regime del Cairo persegue anche in Libia”… scorporando “la questione della lotta alle formazioni terroristiche dal tentativo politico e diplomatico di riconciliazione in Libia“. Una posizione, in parte chiarita, proprio dal titolare della Farnesina, che nell’intervista al quotidiano diretto da Ezio Mauro ha avvertito che non si può confondere “il Daesh con i Fratelli musulmani”.