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Perché Europa e America devono fare fronte comune contro Putin. Parla Roger Cohen

Le cronache consegnano un mondo sempre più instabile. Le tensioni si moltiplicano e l’Occidente, in crisi d’identità e di valori, cerca un nuovo ruolo.

Dopo una lunga stagione di dominio unipolare a stelle e strisce, serve davvero un nuovo ordine mondiale? E se sì, saranno in grado, Stati Uniti ed Europa, di ridisegnarlo?

Di questi temi si è discusso oggi a Roma, in un convegno organizzato dalla Fondazione Magna Carta, Centro studi americani e Cemiss, in collaborazione con l’Ambasciata Usa in Italia, e al quale ha preso parte anche Roger Cohen.

In una conversazione con Formiche.net, lo scrittore e giornalista, esperto di politica estera, già corrispondente dall’Italia per il Wall Street Journal ed oggi editorialista del New York Times, spiega cosa dovrebbe fare l’Occidente per muoversi (e sopravvivere) nel nuovo disordine globale.

Mr. Cohen, quali sono i nodi centrali da sciogliere in questo disordine globale?

Credo che ci siano diversi fattori. Uno attiene senza dubbio alla credibilità del potere americano e del rispetto degli impegni assunti nei confronti dei suoi partner. Ad esempio, in Siria, sfortunatamente, si è assistito a un’esitazione americana. Barack Obama aveva promesso di cacciare Assad se avesse superato la “linea rossa” delle armi chimiche, ma ciò non è accaduto. L’inazione è anche una forma di azione e l’ascesa dell’Isis, le reazioni di Putin in Ucraina o della Cina in molti frangenti, sono il risultato di questo vuoto del potere americano e della percezione di relativa debolezza della Casa Bianca.

A proposito di carenza di leadership: nel suo ultimo libro uscito da pochi mesi, “World order”, Henry Kissinger identifica la causa di questa crisi nella necessità di un nuovo ordine mondiale. Cosa ne pensa?

L’America è soprattutto un’idea. Quando questa viene meno, o viene separata dalla nazione che la incarna, a risentirne è tutto l’equilibrio mondiale fondato sui nostri valori: libertà, rule of law, diritti civili.

Come possono, entrambe le sponde dell’Atlantico, reagire insieme a questa instabilità crescente, che in fondo mette a rischio valori condivisi?

L’Europa è attraversata da un senso di disillusione e la sua economia non è ancora riuscita a risollevarsi, a differenza di quella americana. Entrambe le società, però, sono relativamente depresse dopo la crisi finanziaria del 2008. Questo ha succhiato l’energia dell’Occidente e lo ha reso un esempio meno attrattivo nei confronti del resto del mondo. Nel medio termine, questo rende il modello.

Quali sono i dossier comuni?

Credo che sia importante che Washington e Bruxelles lavorino per fare fronte comune contro Putin, proteggendo i Paesi baltici; per completare il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, il Ttip; per chiarire le tensioni maturate a seguito del Datagate, soprattutto in Germania; infine c’è bisogno di una nuova iniezione di energia nell’Alleanza atlantica. Non basta sedersi assieme e discutere, bisogna assumere decisioni e adottarle.

L’amministrazione americana punta molto a un accordo nel negoziato sul nucleare iraniano. Crede possa costituire il classico game changer per le crisi regionali, come sostengono in molti? E quante possibilità reali di intesa intravede, dopo l’ennesimo rinvio?

Un accordo con l’Iran va inseguito ed è fondamentale, per moltissime ragioni. Una di queste è che tenere isolato un Paese così grande fa il gioco di chi alimenta, nel Paese e nella regione, un sentimento anti-occidentale. Abbiamo bisogno di reintegrare pienamente l’Iran nell’economia mondiale, è uno Stato giovane, con straordinarie potenzialità e enormi riserve energetiche. Molti passi in avanti sono stati fatti in questi anni e tutti sono consci del fatto che tornare indietro sarebbe disastroso. Detto ciò, credo che un’intesa sia molto difficile, che ha il 50% di possibilità di essere realizzata, perché in entrambi i lati sono in molti a remare contro, anche tra Paesi a noi vicini.

Un altro elemento di divisione in Occidente, forse il più importante, è l’interpretazione del rapporto con la Cina e più in generale con le potenze emergenti, che mettono in discussione l’attuale costruzione delle istituzioni mondiali, in particolare Banca Mondiale. Quale crede debba essere il modo di porsi nei confronti di Pechino?

Gli Usa e la Cina hanno da poco raggiunto un accordo sulle emissioni per ridurre l’inquinamento e il cambiamento climatico e allo stesso tempo aumenta la propria aggressività nel Mar Cinese. Credo che la Cina voglia un’ascesa pacifica per i prossimi anni, ma per averla deve accettare l’America come una potenza asiatica, perché Washington deve assicurare i suoi alleati regionali – Giappone, Vietnam, Filippine – che ora si sentono minacciati da Pechino. Personalemente credo la crescita cinese si possa fronteggiare in maniera pacifica, almeno per i prossimi 10 o 20 anni. La Cina non vuole mettere a repentaglio adesso, con qualche conflitto, la sua ambizione di diventare un Paese pienamente sviluppato.


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