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Lo Stato Islamico nasce a Camp Bucca, Irak

Camp Bucca, prigione del sud dell’Iraq: era già famosa nel 2004 – l’anno dopo dell’invasione americana. Lì i soldati statunitensi portavano i combattenti che strappavano dalle città irachene; lì, in quella fortezza di stanze labirinto, in mezzo al nulla del deserto iracheno. L’eredità della presenza americana in Iraq, sarebbe stata plasmata, anche, da questo campo di detenzione, dove ai prigionieri venivano fatte indossare divise sgargianti di diversi colori, in base al grado gerarchico attribuito loro dall’intelligence. In mezzo a loro, con la tuta arancione canonica, nessuno immaginava ci potesse essere il futuro Califfo.

E infatti, è a Camp Bucca che è nato l’Isis, racconta un alto notabile dell’attuale Stato Islamico a Martin Chulov del Guardian «Bucca era una fabbrica, ha costruito la nostra ideologia».

Si chiama Abu Ahmed (o meglio, questo è il suo nome di battaglia) l’uomo che ha parlato con il giornale inglese, e ha raccontato nel bellissimo reportage di Chulov, come la prigione, superate le paure della detenzione, è stata «una straordinaria opportunità». Lui e diversi altri combattenti, non si sarebbero potuti riunire in quel numero, con quella continuità, in uno stesso luogo, a Baghdad: «Sarebbe stato troppo pericoloso», li avrebbero osservati e poi colpiti. A Camp Bucca Ahmed ha incontrato per la prima volta Abu Bakr al-Baghdadi, l’attuale leader dello Stato Islamico, il Califfo Ibrahim, detenuto pure lui.

L’intervista al Guardian, è frutto di due anni di lavoro: contatti, e discussioni, nel corso dei quali Ahmed ha rivelato il suo passato di militanza (fino ai quadri alti) e ha sempre espresso una certa titubanza ad uscire pubblicamente. D’altronde, le ragioni dell’attuale Isis, sono molto simili a quelle che lo avevano portato in prigione dieci anni fa: i sunniti come lui si ribellavano agli Usa, visti come veicoli dell’affermazione del potere sciita. Aprirsi con uno dei principali quotidiani occidentali, è, adesso, un passaggio importante delle sue perplessità su ciò che lo Stato Islamico è diventato – una sorta di pentimento, di affrancamento, per dire.

Ahmed ha raccontato molto di Baghdadi. Un uomo schivo, spesso distante, opaco, non agitato secondo le sue rivelazioni: con carisma, certo, ma non come quello di altri detenuti. I carcerieri americani lo avevano addirittura usato alcune volte, per sedare questioni insorte tra i detenuti e tenere il campo tranquillo. Baghdadi è stato catturato dalle forze speciali americane nel febbraio 2004, a Falluja, mentre stava “aiutando” un gruppo dal nome Jeish Ahl al-Sunnah al-Jamaah. Erano i tempi in cui i sunniti iracheni, si sentivano privati di ogni sorta di diritto civile dagli americani, che erano lì per rovesciare il loro patrono, Saddam Hussein – catturato proprio un 13 dicembre, del 2003. Per questo combattevano, e perché davanti a loro vedevano imbracciare le armi, insieme agli americani, alle milizie sciite.

Jeish Ahl al-Sunnah al-Jamaah era uno delle decine di gruppi armati che nascevano in quegli anni, e che presto sarebbero confluiti nella casa di al-Qaeda in Iraq. Uno dei tanti: precursore del colosso del Califfato, vero, ma infinitesimo se messo a confronto con la straordinaria potenza che aveva in mano, ai tempi, il capo della rivolta: Abu Musab al-Zarqawi.

Ma Baghdadi dalla sua, rivendicava da sempre una carta unica: la discendenza diretta dal profeta Muhammad. Carta giocata di nuovo, dieci anni dopo (adesso), per incoronarsi Califfo.

Una persona tranquilla in carcere, stando al racconto di Abu Ahmed, che si è mosso sottotraccia, scalando mano a mano gli scalini della prigione: «ogni volta che c’era un problema, lui era al centro di esso», per risolverlo. Per questo a dicembre 2004 fu ritenuto idoneo dagli americani, per lasciare il campo di detenzione.

Baghdadi era autorizzato ad uscire, e senza che l’esercito Usa se ne accorgesse, cominciava così la costruzione dello Stato Islamico. La “formazione in carcere” (componente ormai nota in diversi altri casi), è stata ammessa da svariati militanti e anche da alcuni ufficiali americani: non solo Camp Bucca, ma pure Camp Cropper e Abu Ghraib – altre due prigioni nei pressi di Baghdad. La radicalizzazione durante le detenzioni, ha incendiato la rivolta e ha permesso di creare strutture più organizzate: gerarchie, ruoli, catene di comando. Erano tutti lì, tutti insieme: un’occasione, appunto.

Il mezzo di comunicazione per chi usciva, era l’elastico delle mutande: ci appuntavano i contatti da prendere appena fuori. «Entro il 2009 molti di noi stavano già facendo quello che facevano prima di essere catturati. Ma lo stavano facendo meglio», cioè più organizzati. Racconta Chulov che Abu Ahmed sorrideva mentre spiegava la semplicità con cui si è svolto quello che poteva rappresentare il passaggio più complicato: ricompattare e collegare le forze dei jihadisti. Appena usciti, giunti in posto sicuro, si spogliavano e cominciavano a chiamare i contatti concordati in carcere, per costruire il network iracheno. Le mutande, pensare.

Hisham al-Hashimi, analista iracheno, stima che almeno 17 su 25 dei più alti leader dello Stato Islamico, siano stati rinchiusi in prigioni statunitensi, tra il 2004 e il 2011. Alcuni sono stati consegnati dagli americani alle carceri irachene, ma le liberazioni/evasioni degli ultimi anni, hanno permesso loro di tornare a ricongiungersi con i compagni. Ad Abu Ghraib è toccato nel 2013, e si pensa siano evasi oltre 500 detenuti; a giugno di quest’anno invece, è stata attaccata la prigione di Mosul, e si dice che a sfondare i cancelli fosse presente pure il Califfo Baghdadi.

Le prigioni sono state non solo punto di raccolta, ma hanno anche avuto il ruolo di sviluppo ideologico e poi diventate simbolo della rivendicazione: i maltrattamenti, le torture (argomento attuale, dopo l’uscita del report del Senato americano sui metodi duri di interrogatorio della CIA), contro padri, mariti, figli, sono diventate nella narrativa della rivolta, l’emblema della politica ingiusta degli invasori. Di Abu Ghraib si sapeva tutto anche in quegli anni, di Camp Bucca se ne parla dal 2009.

Secondo i racconti di Ahmed, gli anni di relativa tranquillità tra il 2008 e il 2010 (quando i risultati del Sunni Awakening e del Surge di Petraeus cominciavano ad arrivare e avevano ridato speranza al paese), hanno rappresentato per l’Isis un momento di tregua, un allentamento, ma non una sconfitta completa – occorreva proseguire, forse. Nel 2006 gli Stati Uniti avevano ucciso, con l’aiuto dell’intelligence giordana, al-Zarqawi, considerato il leader più intelligente che lo stato islamico ha avuto. Nel 2010 fu colpito a morte in un raid Abu Omar al-Baghdadi, il suo successore, spietato e pragmatico (con lui c’era anche Abu Ayub al-Masri, il vice). Poi toccò a Abu Bakr, l’attuale Califfo, prendere le redini dell’organizzazione: lui, Ahmed, lo considera il più sanguinario.

Tra le importanti rivelazioni fornite dal pezzo del Guardian, c’è la ricostruzione dei collegamenti tra Siria e Iraq, già ai tempi della rivolta anti-americani. I servizi segreti siriani favorivano il flusso dei jihadisti verso Baghdad, con il tentativo di destabilizzare il progetto statunitense. Ci sarebbero stati incontri tra elementi dei mukhabarat di Damasco e dirigenti di al-Qaeda in Iraq. Il doppio gioco di Assad, che già ai tempi cercava di vendersi come partner anti-terrore (nell’interesse dei fratelli sciiti) con l’Occidente.

Già tra il 2004-2005, elementi baahtisti e jihadisti cominciavano a stare insieme – come è successo nella rapida presa di territorio di giugno di quest’anno. I baahtisti, nascosti dopo la caduta di Saddam, loro riferimento, godevano della protezione della sezione siriana del Ba’th, cioè degli Assad. E pure molti dei mujahiddin, venivano dalla Siria, in una linea di alimentazione protetta dal governo di Damasco – questi passaggi erano già noti, ma quella fornita dal reportage del Guardian è un’ulteriore, importante, conferma. Nemici ideologici feroci, baathisti e jihadisti, uniti contro gli invasori occidentali e contro gli sciiti iracheni, la cui presa del potere veniva favorita dagli americani.

Ahmed, secondo Chulov è molto vicino al punto di lasciare («Il più grande errore che ho fatto, è quello di unirmi a loro»), ma non vuole mollare del tutto per paura delle ritorsioni contro la sua famiglia. Come lui, diversi combattenti del jihad iracheno, cominciano a nutrire dubbi sull’attuale fase di questa decennale guerra.

Gli uomini che avevano pensato la rivolta a Bucca, stanno vivendo fasi di riflessione. Sono travolti da eventi molto più grandi di loro: non si tratta più di liberare il paese dagli invasori, o di regolare i conti con l’altra componente settaria. Prendersi il mondo, non era nei piani, insomma.

@danemblog



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