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La Cassa depositi e prestiti che vorrei

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Senza capitalismo di Stato il capitale dei privati, in Italia, non può sopravvivere e prosperare. Lo diceva già Keynes, quando sosteneva che l’investimento dello Stato deve essere indirizzato verso quelle attività che i privati ancora non percepiscono come produttive. Il capitalismo è per lo “stato stazionario”, per i momenti di rottura del tran tran tecnologico ci vuole la direzione strategica e i capitali di uno Stato. A maggior ragione oggi, che siamo in una economia, in Italia, del tutto dominata dalle PMI e addirittura dalle microimprese.

Non mi si venga qui a fare l’esempio di Google, di Microsoft, di Amazon o di altre “success stories” del tutto privatistiche che hanno creato un gap tecnologico epocale a partire dai “garages” californiani o da spin-off piccolissime. E se non ci fosse stato l’aiuto mascherato dello Stato, che ha accettato che google, per esempio, abbia  compiuto la rituale esterovestizione degli utili, cosa ne sarebbe di queste grandi società globali? La normativa fiscale di favore è un vero e proprio aiuto di Stato, altro che storie.

Bene: nel 2003 la Cassa Depositi e Prestiti viene trasformata in una Società per Azioni, con il 70% del capitale detenuto dal Ministero del Tesoro e il rimanente 30% in mano alle 66 Fondazioni Bancarie. La CDP. storico referente del risparmio postale dal 1850, oggi gestisce circa 225 miliardi di Euro di risparmio, appunto, postale. Il totale dei depositi delle nostre (sottocapitalizzate) banche arriva a 60 miliardi di Euro, tanto per capire le dimensioni del problema.

L’Iri, certo, negli anni d’oro, poteva mostrare bilanci più consistenti, soprattutto quando vinse la linea delle privatizzazioni rapide di gran parte del patrimonio industriale italiano, una “preda di guerra” a scoppio ritardato.
Ma l’Iri, poi, con la teoria degli “oneri impropri” si era prestato a raccogliere e a comprare, spesso a peso d’oro, aziende che avevano solo un rilievo per il sostegno di questo o quel bacino elettorale, mentre Beneduce, il massone socialista a cui Mussolini concede l’incarico della formazione di Iri e Imi,  voleva una amministrazione snella e economicissima.

Ecco, il problema che vi pongo è chiaro: se occorre un motore immobile dello sviluppo italiano, e se le Pmi non possono farcela da sole, allora la Cdp può e deve essere la Nuova Iri.
Intanto, la legge definisce i finanziamenti di Cdp come “servizi di interesse economico generale”. Già oggi Cdp possiede il 26,4% di Eni, il 29,9% di Terna, il 30% di  Snam Retegas oltre al 76% di Simest e il 100% di Fintecna e di Sace.

Per ora, il Fondo 2I, il Fondo di Cassa Depositi e Prestiti e di varie banche d’affari italiane ed estere si occupa di infrastrutture, mentre Cdp Investimenti Sgr lavora nel campo dell’edilizia sociale, ed esiste poi un Fondo Italiano di Investimento Sgr, con Abi e Condindustria, che si occupa finalmente di sostegno alle Piccole e Medie Imprese, avendo già finanziato oltre 53mila Pmi. Benissimo, ma qui si tratta di sostenere le linee di sviluppo del nostro sistema economico, e quindi occorre una distribuzione a rete degli investimenti e delle velutazioni di rischio, che devono essere collegate ad una politica industriale e  tecnologica di medio-lungo periodo.

Ecco: vorrei una Cdp che, sostituendosi a banche deboli e poco adatte alle nuove sfide tecnologiche del futuro, dove la dimensione dell’impresa non è un dato essenziale, si ponesse due obiettivi: a) salvare quelle Pmi che hanno la possibilità tecnologica e di mercato di rivivere, mandando fuori dai piedi la vecchia gestione e imponendo una nuova generazione di tecnocrati giovani e innovativi, 2) impostare direttamente la politica industriale italiana, gestendo le Pmi in crescita e curandone anche le loro “conquiste fuori confine”. La politica industriale ò è aggressiva o non è.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”


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