«Bisognerà cantare meglio, per via dei bambini»: Diogene Laerzio, biografo di professione, mise quest’avvertenza sulle labbra di Anassimandro, antico filosofo pre-socratico, il quale ben sapeva che la verità è bella ma talvolta difficile e, perciò, dev’essere detta e ridetta in tutti i modi possibili, affinché chi l’ascolta la possa comprendere o almeno intuire. È ciò che ha fatto Roberto Benigni, commentando il Decalogo in televisione, parlando con semplicità estrema, dosando magistralmente per lunghi tratti del suo spettacolo il tono pazientemente didascalico con quello puntuto dell’ironia, cui attori e retori – quando sono bravi – devono pur ricorrere nel fare il loro mestiere.
S’è preparato bene, Benigni, per applicarsi ai Dieci Comandamenti: ha studiato certamente buoni esegeti, di quelli che sanno interpretare il testo biblico senza sganciarne il messaggio – sempre attuale – dal contesto storico-culturale e religioso in cui esso fu redatto, quello ebraico antico. Si è documentato senz’altro, Benigni, informandosi abbondantemente sui numerosi sensi che ha ognuna delle Dieci Parole (questo significa il termine Decalogo), riportate secondo diverse varianti nel libro dell’Esodo e nel libro del Deuteronomio. Soprattutto, si è lungamente confrontato con la sacra pagina, facendone una lettura di “prima mano” come si suol dire e, quindi, maturandone una propria rilettura, sostenuta – m’è parso – da un’attitudine da cui oggi, spesso, persino gli studiosi puri e crudi delle Scritture preferiscono, per ragioni di asettica “scientificità”, astenersi: il coinvolgimento personale. Per dirla in termini brutalmente teologici e scomodamente spirituali: la fede.
Può sembrare un abuso interpretativo questa mia sottolineatura, specialmente se riferita a uno come Benigni, che nel suo spettacolo s’è sempre mantenuto politicamente corretto, distinguendo «quelli che tra noi son credenti e quelli che non credono», mentre comunque li chiamava in causa insieme, facendoli stare cordialmente a braccetto. Ma vorrei invitare chi storce il naso appena sente parlare di fede, o chi semplicemente la reputa ormai improbabile nella vita di chi mostra d’esser molto intelligente e, anzi, geniale, come appunto Benigni, a considerare che in televisione abbiamo visto proprio un bell’esempio di accompagnamento reciproco tra «mente» e «cuore», sempre per usare i termini proferiti sulla scena dall’attore toscano. Per non dire anche del suo sommesso ma esplicito stornare gli applausi ricevuti dal pubblico in direzione dell’Autore di quel Decalogo ch’egli andava parafrasando.
Così, Benigni ha offerto agli spettatori – quelli presenti nello studio in cui venivano fatte le riprese e quelli seduti sul divano di casa, tutti ugualmente incantati dal suo discorso, molti assolutamente digiuni di conoscenze religiose, non pochi persino “biblicamente analfabeti” – un saggio di quella che i Padri della Chiesa antica chiamavano “metanoia”. Non occorre necessariamente tradurre questa parola greca col termine italiano “conversione”. Conviene, piuttosto, far notare che il cinquanta per cento di essa significa “mente” (“nous”, in greco), perciò intelletto, ragione. Metanoia, difatti, può significare andare oltre (“metà”, in greco) la ragione. Ma, anche, accompagnare la ragione (“metà” vuol dire pure “insieme”). Questa impresa importante mi pare abbia compiuto Benigni, commentando il Decalogo. Non ha lasciato viaggiare da sola la sua lucida mente, le ha assicurato una valida compagnia, peraltro mai invasiva, sempre semplicemente implicita.
Qualcuno dice che Benigni s’è messo a fare, perciò, il catechismo. Sì, si può ammettere che l’abbia davvero fatto. Magari nello stile di papa Bergoglio, parlando “potabile” per gente che ormai non ha più l’orecchio allenato per intendere. E facendo il suo vero mestiere, quello del poeta, per il quale vale ciò che dichiara un formidabile verso di Mario Luzi, conterraneo di Benigni: «Vola alta, parola, cresci in profondità». Se catechismo è stato, in ogni caso, sempre meglio di quell’altra catechesi che negli anni scorsi è stata propinata agli italiani nei salotti televisivi in cui si martellava, sera per sera, su improbabili fisime psico-analitiche e temi affini.