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Ecco le vere diatribe per il dopo Napolitano al Quirinale

L’appello di Giorgio Napolitano (no a elezioni anticipate, no alle scissioni di Forza Italia e Pd) forse riuscirà a preparare un esito governato dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica: un po’ come avvenne per Francesco Cossiga grazie a Ciriaco De Mita e per Carlo Azeglio Ciampi grazie a Walter Veltroni. Un sistema giunto sull’orlo del baratro potrebbe ricomporsi almeno per un momento e consentire una tregua.

In questo quadro si metterebbero da parte i candidati ideali di Matteo Renzi (cioè qualcuno che non facesse troppa ombra a Palazzo Chigi tipo Roberta Pinotti o Paolo Gentiloni) e i polverosi fedeli compagni d’arme di Napolitano (tipo Giuliano Amato), e dovrebbe emergere una candidatura che non solo non spaventi nessuno ma che anche metta d’accordo tedeschi e americani, cioè i due principali player della largamente commissariata politica italiana: il nome “ragionevole” (che forse reggerà tra le mille guerriglie in atto) in questo scenario è quello di Pier Carlo Padoan.

La prospettiva – implicita nell’indicare un così attento cultore della stabilità economica – di tentare di non sciogliere le Camere (almeno fino al secondo anno e mezzo di mandato cioè fine 2015 quando “si maturano” le pensioni) dovrebbe rassicurare la massa dei peones (fittiani, grillini senza arte né parte, larghi settori forzaitalioti allo sbando, bersaniani senza più prospettive, ennecidini con quasi più parlamentari che voti), ammansire Massimo D’Alema (uno dei grandi scontenti che potrebbe provocare rotture), calmare Silvio Berlusconi spaventato dall’ipotesi Romano Prodi, non dispiacere alla Repubblica che non voleva una scelta esplicitamente concordata tra i pattisti del Nazareno. Non so come verrà presa da quella maionese impazzita che è oggi il Corriere della Sera, ma via Solferino sta diventando oggi sempre più irrilevante nei grandi giochi politici tanto da enfatizzare una posizione di un Berlusconi (“no ai tecnici”) che sa come l’unico suo modo per favorire una scelta, è escluderla pubblicamente.

Sarà tutto bene quel che finirà bene?

In un mondo dove l’anatra Barack Obama sembra non solo zoppa ma anche bizzosamente disorientata (e disorientante) e dove la Grande bottegaia tedesca domina ragionieristicamente l’Europa, conquistare una pausa nella nostra specifica corsa alla disgregazione è senza dubbio un risultato da non sottovalutare.

Detto questo, proprio l’esito delle due precedenti presidenze ben concordate non può non invitare alla riflessione: alla fine il voto concorde pur non producendo certi effetti dei voti molto discordi (Giovanni Gronchi e il luglio ’60, le dure polemiche su Antonio Segni, l’agguato al povero Giovanni Leone) non ha avuto esiti complessivamente felici.

Questo anche nel caso di un presidente di grande qualità come Cossiga, uno dei politici più colti e intelligenti della storia repubblicana, e tanto più con Ciampi, di cui si può cogliere oggi a pieno la responsabilità nell’avere trattato la nostra entrata nell’euro come è materialmente avvenuto: una scelta non solo concretamente sciagurata (le forme dell’adesione, non solo e forse non tanto l’adesione in sé) ma anche ideologicamente ispirata dall’esasperata convinzione che solo un vincolo esterno avrebbe disciplinato l’Italia  (e così ci troviamo più indisciplinati di prima e anche largamente colonizzati). In questo senso non solo i presidenti “concordati” non hanno preparato una fase più serena per l’Italia bensì hanno propiziato stagioni di ancora maggiore crisi.

E’ evidente come anche la deriva presa verso la prossima elezione del “presidente” prosegua l’andazzo di una gestione dall’alto della nostra politica nazionale acceleratasi con le crisi globale del 2008 e con quella dei “debiti pubblici” del 2010: con le operazioni per distruggere politicamente Berlusconi (certamente per più versi protagonista di comportamenti deplorevoli e di una non adeguata capacità di scelte politiche ma che in una democrazia avrebbe dovuto essere sanzionato dagli elettori prima che da Alte corti, toghe e cancellerie straniere), per imporre senza voto un governo Monti per ben un terribile anno e mezzo, per coprire un governo Lettino nato di “unità nazionale” e sopravvissuto solo con scissioni politiche che senza verifiche elettorali – almeno nel medio periodo – scombinano il rapporto tra rappresentanti e rappresentati (il Napolitano “antiscissioni” di oggi fa un po’ a pugni con le moral suasion pro-scissionistiche che dagli ambienti quirinalizi erano state espresse prima verso Gianfranco Fini poi ancora più nettamente verso Angelino Alfano).

Renzi apre spazi, Padoan potrebbe consentire una tregua: bene, ma oggi sull’orlo del baratro non è più tempo di accontentarsi. Degli spazi aperti bisogna discutere su come riempirli e non bastano le mosse tattiche renziane per “tamponare” i problemi in campo: insomma non si può andare avanti a essere così approssimativi e “alla giornata” né sul carattere presidenziale o meno di una nuova futura repubblica, né su un sistema di decentramento con cui sostituire l’attuale in crisi, né sull’assetto di una Europa senza maggiordomi e servitori, né sul trattato transatlantico, né su un sistema bilanciato di giustizia degno di quelli di tutti i grandi stati democratici occidentali, né sul nostro ruolo nel Mediterraneo (ora ci si mette anche ad attaccare Israele), né su un serio sistema di relazioni industriali costruito non solo sui maldipancia (pur ragionevoli) di Mario Draghi.

E in questo senso, anche per aprire una discussione pubblica che aiuti Padoan se andrà al Quirinale, va dato un giudizio “storico” su Napolitano: giudizio che nonostante la cultura, la sensibilità democratica, la ricercata (ma sempre “trovata”?) fedeltà alle istituzioni, la volontà di smorzare le tensioni del presidente uscente non può che essere ricco (ricchissimo?) di riserve. Al fondo la mia convinzione è che ci siamo trovati di fronte al più classico esempio di “medico pietoso che fa la piaga cancrenosa”.

Ben lungi dal terrore per le elezioni – come recentemente hanno ben dimostrano da Mariano Rajoy ad Antonis Samaras, da Shinzo Abe a Benjamin Netanyahu – in una democrazia la difesa della sovranità nazionale (ben intrecciata a quella popolare) si basa essenzialmente sul giudizio dei cittadini (persino espresso con un sistema tipo consultellum) a cui si deve ricorrere quando la situazione si impantana.


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