La conclusione positiva dei negoziati fra Washington e L’Avana, per l’inizio di un processo di normalizzazione fra i due Paesi, rappresenta un primo passo. Molte difficoltà restano da superare. In particolare, la verifica della scommessa di Obama che l’isolamento del regime castrista ha provocato solo danni, mentre un’apertura potrebbe migliorare la situazione interna dei cubani. Molto interessanti sono i riflessi internazionali dell’evento.
Esso ha innanzitutto segnato un ritorno “alla grande” del Vaticano sulla scena internazionale. I precedenti interventi vaticani avevano avuto esito alquanto incerto. La lettera a Putin per evitare i bombardamenti americani in Siria è stata per molti causa indiretta della crescita dell’ISIS.
La preghiera comune fra cristiani, ebrei e musulmani in Vaticano, volta a rilanciare il processo di pace fra israeliani e palestinesi, era stata seguita, a distanza di pochi giorni, dall’attacco israeliano a Gaza. Nel caso di Cuba l’intervento della Santa Sede ha avuto invece pieno successo. I meriti vanno sicuramente al Segretario di Stato, cardinale Parolin, e al suo “vice”, monsignor Becciu, già nunzi in Venezuela e a Cuba. Essi si sono mossi nella scia dell’intera politica precedentemente seguita dalla Santa Sede. L’embargo statunitense e l’isolamento dell’isola erano stati condannati nelle visite dei precedenti pontefici: nel 1998 da Giovanni Paolo II e nel 2012 da Benedetto XVI, oltre che durante quella del 1996 di Fidel Castro in Vaticano.
Certamente l’avvento del Papa argentino ha segnato una maggiore attenzione della Chiesa verso l’emisfero meridionale, soprattutto nei riguardi dell’America Latina, nella quale il monopolio del Cattolicesimo è insidiato dall’avanzata delle missioni evangeliche. Con Papa Francesco, il Vaticano si trova in migliori condizioni del passato per essere considerato un mediatore neutrale. Appare meno legato all’Europa e agli Stati Uniti. La sua azione nel favorire il disgelo e il dialogo fra gli USA e Cuba è stata doverosamente riconosciuta sia da Barack Obama sia da Raul Castro, succeduto nel 2008 al fratello Fidel, “lider maximo” del “movimento 26 luglio”, che nel 1959 aveva preso il potere a Cuba, cacciando il dittatore Ignazio Batista.
L’accordo, raggiunto con negoziati segreti svoltisi in Canada per 18 mesi e conclusisi l’ottobre scorso con un incontro riservato delle due delegazioni in Vaticano e lettere del Pontefice ai due capi di Stato, ha comportato lo scambio di agenti prigionieri, l’annuncio della riapertura delle relazioni diplomatiche fra gli USA e Cuba, interrotte nel 1960 quando Fidel Castro aveva dichiarato il suo sostegno all’URSS, il ristabilimento delle telecomunicazioni, un più libero accesso ad internet e l’allentamento di talune misure previste dal totale embargo nei confronti di Cuba, specie in materia di rimesse di denaro. L’embargo, totale dal 1962 dopo la crisi dei missili, fu esteso nel 1996 alle compagnie straniere che commerciavano con Cuba e con la precisazione che solo il Congresso avrebbe potuto eliminarlo.
Si è trattato di un accordo pragmatico. Gli USA hanno rinunciato a fare una predica sulla democrazia ai cubani. Obama ha riconosciuto il fallimento della politica d’isolamento di Cuba. Essa ha rafforzato il regime, invece di indebolirlo, costringendolo a democratizzarsi. Gli ha inoltre procurato molte simpatie specie in America Latina e in Europa. Le pressioni esercitate nei confronti della piccola isola hanno indebolito la posizione americana in tutta l’America Latina, facendola apparire arrogante e imperialista. Le critiche rivolte a Washington soprattutto da parte degli Stati della “Rivoluzione Bolivariana”, facenti capo al Venezuela di Hugo Chavez, hanno certamente favorito la penetrazione cinese nell’intero subcontinente. La continuazione dell’embargo non aveva più la giustificazione strategica, che aveva avuto durante la guerra fredda: quella di contrastare la penetrazione sovietica nelle Americhe caraibica e meridionale, oltre che in Africa, dove Mosca aveva il sostegno dei soldati e guerriglieri cubani.
Bisogna dare atto ad Obama, “anatra zoppa” dopo le elezioni dello scorso novembre, di avere avuto una corretta visione strategica dei mutamenti avvenuti. L’accordo con Cuba, per quanto limitato, risponde alla necessità degli USA di riprendere una certa influenza nell’emisfero meridionale. Non per nulla il presidente ha annunciato che parteciperà il prossimo aprile a Panama al Summit dell’Organizzazione degli Stati Americani. In esso sarà presente anche Raul Castro. Potrebbero esserci delle novità, anche perché il Venezuela, leader della corrente anti-USA, si trova in gravi difficoltà economiche a causa del crollo del prezzo del petrolio. L’indebolimento del Venezuela, principale protettore e finanziatore di Cuba (Chavez aveva addirittura proposto un’unione fra i due Stati, che sarebbe stata chiamata “Venecuba”), è stato di certo un motivo che ha spinto L’Avana ad accelerare la conclusione dell’accordo.
Come accennato, si tratta di un primo passo. Le relazioni cubo-americane saranno normalizzate solo quando sarà eliminato l’embargo. Lo può fare solo il Congresso, a maggioranza repubblicana. La cosa è tutt’altro che semplice. I numerosi esuli cubani votano in massa per i repubblicani, soprattutto in Florida, Stato chiave per le prossime presidenziali. La decisione di Obama è stata già fortemente criticata da molti parlamentari, che l’hanno definita un cedimento, se non un tradimento della democrazia e dei valori degli USA. Hanno avanzato il sospetto che sia stata presa solo per ragioni elettorali. Sarà interessante vedere come Obama riuscirà a superare gli ostacoli che indubbiamente si frapporranno alla cancellazione dell’embargo. La sua semplice attenuazione per ora concordata con Cuba ha esaurito i poteri presidenziali che, pur ampi, non sono completi in politica estera. Sarebbe forse utile un intervento della Commissione Europea, che dia per scontata l’abolizione di ogni embargo nei confronti di Cuba. E’ un’occasione per l’Alto Rappresentante, di far sentire la propria voce. Troverebbe, quanto meno, il sostegno del Vaticano.