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Tutte le colpe della Germania che ha egemonizzato l’euro

Avere a cuore le sorti della moneta unica significa preoccuparsi non delle pause nell’aggiustamento fiscale dei paesi periferici né dei ritardi nei loro processi di riforma strutturale, ma dell’atteggiamento di negazione che la Germania ha rispetto a misure di sostegno del ciclo economico e di correzione dei i propri squilibri. Squilibri propagatori di effetti depressivi sull’intera area.

“Are you willing to risk it all or is your love in vain?” Prendendo in prestito le parole di una famosissima canzone di Bob Dylan, si possono puntare i riflettori sugli squilibri dei paesi creditori in seno all’unione monetaria e – in particolare – sull’egocentrismo tedesco che pare mettere in dubbio “l’amore” della Germania nei confronti della moneta unica, dubbi evidenti sin dagli albori della crisi dell’euro nel 2010 ma realizzati con un discreto ritardo. Ritardo che è responsabile – in parte – degli esiti deleteri a cui oggi assistiamo, ritardo che si può attribuire a tre fattori principali: l’aver sottovalutato l’impatto dell’austerità su economie già provate dalla recessione del 2008-2009, l’aver subito il fascino per il modello tedesco – con conseguenti sviluppi di mercantilismo e rigetto delle regole della politica economica – e, infine, l’aver riposto fiducia in agende politiche che hanno puntato su una modernizzazione dell’economia e una riduzione del peso dello Stato, accantonando un punto prioritario: l’uscita dalla recessione.

A ben vedere, l’ampio e crescente attivo della Germania non è il risultato di una crescita della produttività manifatturiera, quanto di una svalutazione competitiva messa in atto durante il primo decennio dell’entrata in vigore della moneta unica: in Germania tra il 1999 e il 2007 le retribuzioni reali pro-capite nel settore industriale – il più esposto alla concorrenza internazionale – sono diminuite del 12,2% in rapporto alla produttività (aumentata del 25% rispetto agli altri settori non esposti alla concorrenza); al contrario, nei paesi periferici, i salari sono cresciuti del 7,8% rispetto alla produttività industriale. È possibile, quindi, parlare di una svalutazione competitiva a tutti gli effetti: l’abbattimento dei costi reali (-20 punti percentuali) rispetto ai competitori ha generato un enorme vantaggio (esportazioni al 50% del Pil, industria al 26%) per la Germania, vantaggio ottenuto a discapito dei partner commerciali e possibile solo grazie alla mancanza del tasso di cambio all’interno dell’unione monetaria.

È possibile stimare – sottraendo al differenziale d’inflazione richiesto per correggere gli squilibri, intersettoriali e internazionali, il differenziale d’inflazione verificatosi – un deprezzamento tedesco di circa il 16% (fra il 1999 e il 2007): visto l’indugiare della Germania davanti ad azioni di pronta correzione di questi squilibri, saranno i paesi periferici a dover portare le dinamiche dei propri prezzi e costi al di sotto del 16% rispetto a quelli tedeschi. E pare questa la strada intrapresa dalla Germania che continua a proporsi, o ad imporsi, come modello economico per i paesi periferici, cui spetterebbe l’intera responsabilità di tempestivi provvedimenti, ovvero riforme strutturali che aumentino la produttività mantenendo a freno i salari, provando a ridimensionare il surplus del 7% riscontrato in Germania.

Lo status quo vede i paesi periferici – che includono Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Grecia – alle prese con un’inflazione dell’euro dello 0,4% contro un’inflazione tedesca dell’1% rispetto a cui è necessario eliminare il gap competitivo, e le riforme strutturali invocate dalla Germania non bastano e – anzi – potrebbero rappresentare un pericolo per l’economia di questi paesi: per tendere a un’inflazione pari a zero occorre che l’economia sia molto debole per poter frenare le retribuzioni salariali al di sotto delle dinamiche della produttività, produttività incoraggiata proprio dalle riforme strutturali; ma in un’economia debole l’aumento della produttività si realizzerebbe con cali dell’occupazione e si cadrebbe – nuovamente – nella trappola della depressione.

Per eliminare un divario competitivo di 16 punti percentuali con la Germania (con inflazione a 1%), i paesi periferici (inflazione 0%) dovrebbero andare incontro a 16 anni di depressione che coinvolgerebbe tutta l’area euro (inflazione 0,5%), con il fallimento della Bce nel mantenere la stabilità dei prezzi. Per ovviare a una catastrofe simile, un piano valido potrebbe essere quello in cui un’inflazione tedesca portata al 3% e quella dei paesi periferici all’1% consentirebbe di annullare la sperequazione in soli 8 anni, dimezzando quindi le tempistiche e mettendo in grado la Bce di realizzare il target del 2%; superfluo ribadire la necessità che la Germania riconosca le proprie responsabilità nella correzione di questi squilibri.

Al tempo stesso l’analisi di scenario sposta l’attenzione sull’altro braccio della politica economica, ovvero quello fiscale: la sostenibilità dell’euro è minacciata da una stagnazione che è il risultato di politiche che hanno compresso la domanda; il ridisegno dei tempi del consolidamento fiscale nelle economie periferiche e l’aumento della spesa pubblica per investimenti nei paesi “core” dovrebbero affiancare gli sforzi della Bce nel cercare di rivitalizzare l’economia e nel far crescere l’inflazione in Germania e nell’area euro.



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