A Parigi non s’addice il lutto. Così credevo. Due secoli fa il Terrore falciò vite come se fossero state spighe di grano. E dopo la Grande Rivoluzione, ha sanguinato ancora Parigi. Per esempio il 23 giugno 1848, quando pianse i suoi operai assassinati da un generale che rispondeva ad ordini stupidi quanto criminali; il 6 febbraio 1934 a Place de la Concorde, quando militanti di estrema destra ed estrema sinistra manifestarono contro la democrazia parlamentare corrotta ed il governo radical-socialista di Daladier, spalla a spalla, tutti insieme, Camelot du roi di Charles Maurras e giovani lavoratori della cintura rossa, membri della Jeunesse Patriote e attivisti comunisti, ex-combattenti e disoccupati che reclamavano un nuovo ordine sociale e politico: venti furono i morti, 2300 i feriti, le forze dell’ordine non fecero sconti e spararono nel mucchio. E ha sanguinato nel 1944, Parigi occupata dai tedeschi. Poi la questione algerina fece altre vittime. E sempre, l’Europa incredula, s’è chiesta come si potesse morire a Parigi…
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Nessuno immaginava che si potesse morire in quell’anonima strada, nella redazione di un giornale, per mano di francesi islamisti, di origine algerina, che hanno ucciso, tra gli altri, algerino-francese, correttore di bozze del settimanale, Mustapha Ourrad, ed il poliziotto franco-musulmano, Ahmed Merabet: come chiamarla questa variante crudele della guerra civile?
E come si può morire così, diversamente dalle tante altre volte in cui Parigi è stata insanguinata, nella città della tolleranza (almeno fino a qualche tempo fa), dove il laicismo è diventato purtroppo un’altra religione che mette ai margini e demonizza chi magari laicista non è, come gli antiabortisti e gli avversari della ideologia gender? Che cosa è diventata Parigi che è pur sempre la città che amo? Me lo chiedo e non so rispondere.
Qualche settimana fa scendevo dal Père Lachaise dove, come faccio ogni tanto, vado a salutare alcuni degli spiriti europei a me più cari. Incamminandomi per rue Gambetta, verso Place de la République, mi venne da pensare che questo angolo felice, quasi un’isola nel cuore di Parigi, avrebbero dovuto chiamarlo “città dei vivi” piuttosto che “città dei morti”, come lo indica la gente comune. Non avrei mai immaginato che poco lontano, in una piccola strada, nei pressi di boulevard Voltaire e boulevard Richard Lenoir, in rue Nicolas Appert, defilata e silenziosa, si sarebbe consumata una tragedia che ha straziato il cuore di Parigi. Oggi non soltanto le adiacenze del Père Lachaise, ma tutta la città è la “città dei morti”. E stride con il variopinto Marais alle sue spalle, solitamente vestito a festa, la geometrica armonia di Place des Vosges, la brulicante rue des Rosiers, la via ebraica per eccellenza dove i musulmani non vi si sentono estranei. Il lutto s’addice, eccome, ai ragazzi che bevono un bicchiere aspettando di sedersi da Chez Janou, agli impazienti che affollano il marciapiede davanti a Bofinger, agli innamorati che sostano alla Bastiglia aspettando l’ora di cena sorseggiando un aperitivo. Ed anche il mio mercato del giovedì e della domenica che finisce quasi ai margini del luogo dell’eccidio non sarà più lo stesso. Mai più.
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Parigi è una macchia di dolore da quando due delinquenti hanno massacrato dodici persone in nome di una causa folle. Un dolore che stordisce. Ma pure rinnova un amore che niente e nessuno potrà estirpare. Certo, Saint Germain-des-Prés non perderà i suoi colori, i bouquinistes sulla Senna non spariranno, Carlo Magno davanti a Notre-Dame continuerà ad essere austero e vigile, ma le ragazze nel Metro sorrideranno un po’ meno ed i jazzisti di strada nasconderanno in questi giorni le lacrime dentro i suoni acuti che spargeranno da l’Ile Saint-Louis a rue des Francs Bourgeois. E l’imponenza dei grandi boulevard sarà un po’ più mesta e chissà per quanto algerini, marocchini, tunisini verranno guardati ingiustamente con diffidenza… Anche così si spegne Parigi.
E la sua libertà? Ma no che non muore. Continuerò a comprare “Charlie Hebdo” insieme con “Rivarol”, il “settimanale dell’opposizione nazionale ed europea” che nessuno è mai riuscito a chiudere, nonostante un impegno politico-giudiziario ostinato, dal 1951 e così faranno in tanti, gustandosi la satira e la polemica, di sinistra e di destra, corrosiva, ma mai corriva, con buona pace di quel sedicente settimanale britannico che ha osato scrivere che forse un po’ imprudenti Charb ed i suoi lo sono stati nel pubblicare le vignette “sataniche” che hanno mosso i duri e puri dell’Islam al crimine.
Parigi ha perduto tanto tempo fa la sua innocenza, come tutta l’Europa del resto. Nessuno s’illudeva che potesse riconquistarla al debutto del XXI secolo, ma neppure era immaginabile, dopo i tormenti del Novecento, che l’Oriente dai francesi tanto amato, al punto di edificare il colossale Istitut du Monde arabe, in continuità con l’ideologia napoleonica dell’avvicinamento di due mondi, si presentasse con il volto truce del nemico implacabile incarnato dai criminali islamisti.
E’ meno dolce la Francia quest’inverno. E Parigi sembra non volersi aprire ad una nuova vita. Almeno fino a quando la paura che l’imprigiona non verrà debellata. In questo almeno non è sola.