Anche a costo di sconfinare nell’ossimoro, vista la sua antica e disciplinata militanza comunista, si può dire che Giorgio Napolitano è stato il più einaudiano dei successori del primo e più autentico liberale al vertice della Repubblica. Che fu appunto Luigi Einaudi, dal 1948 al 1955.
D’altronde, lo stesso Napolitano nei suoi quasi nove anni al Quirinale, fra il primo mandato completo e il secondo da lui volontariamente interrotto per dichiarato e comprensibile “affaticamento”, si è richiamato a Einaudi quando ha voluto spiegare e difendere decisioni particolarmente contestate. Come il ricorso, per esempio, alla Corte Costituzionale contro la Procura di Palermo, dopo essere stato intercettato al telefono dagli inquirenti nel procedimento sulle presunte trattative di una ventina d’anni prima fra lo Stato e la mafia stragista. Egli si richiamò, in particolare, al diritto e dovere reclamato da Einaudi di salvaguardare le prerogative presidenziali, di riservatezza e d’altro, per poterle lasciarle “intatte” ai successori.
Einaudiani sono stati anche il meticoloso controllo di Napolitano su tutti i documenti sottoposti alla sua firma e le correzioni imposte ai governi di turno, spesso anche pubblicamente, e non solo riservatamente, quando li ha trovati anomali, senza necessariamente ricorrere con la frequenza reclamata dalle opposizioni allo strumento del rinvio delle leggi alle Camere per quella “nuova” ma questa volta inoppugnabile “deliberazione” prevista dall’articolo 74 della Costituzione.
Di stampo einaudiano, nella concezione delle funzioni di stimolo e di iniziativa alle quali è chiamato il presidente della Repubblica di fronte in situazioni politiche eccezionali, fu anche la decisione di Napolitano di nominare nell’autunno del 2011 il governo tecnico di Mario Monti. Pure Einaudi nella lontana estate del 1953 aveva affrontato la crisi esplosa nella Dc per la successione ad Alcide De Gasperi affidando la guida del governo a Giuseppe Pella, il più tecnico o meno politico dei ministri dimissionari: quello del Tesoro. Un governo dichiaratamente “d’affari” o “amministrativo” dal quale la Dc, spiazzata, prese le distanze definendolo “amico”.
Certo, il governo Monti, con il retroterra di una gravissima crisi finanziaria apertasi a livello internazionale e letteralmente esplosa in Italia tra le gambe dell’ultimo Ministero Berlusconi, indebolito già di suo per le divisioni scoppiate nella maggioranza con la fuoruscita dei finiani, fu cosa diversa dal breve governo Pella. Ma l’interpretazione e l’esercizio delle funzioni del presidente della Repubblica furono uguali.
Importanti come le assonanze con lo spirito e lo stile einaudiano sono le dissonanze, anch’esse felici, di Napolitano dai predecessori che più tirarono dalla loro parte l’elastico delle funzioni presidenziali: per esempio, Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro.
Cossiga lasciò il Quirinale sbattendo la porta con il piccone che aveva impugnato qualche anno prima, pur con il dichiarato e apprezzabile proposito di favorire la riforma della politica, e non solo della Costituzione. Napolitano ha lasciato in punta di piedi, ma dopo avere sferzato le Camere che lo avevano appena rieletto, nella primavera del 2013, con un discorso di duro incitamento alle riforme. Un discorso autocriticamente applaudito dai parlamentari e tuttavia disatteso, visto che di riforme “Re Giorgio”, accomiatandosi già nel recente messaggio televisivo di Capodanno, ha dovuto accontentarsi di vedere solo “l’avvio”.
Da Scalfaro, invece, Napolitano si è distinto per la cura con la quale ha cercato di proteggere fin quando gli è stato possibile i governi espressi chiaramente dal responso elettorale, anche se le circostanze lo hanno obbligato a nominarne ben tre – quelli di Monti, di Enrico Letta e infine di Matteo Renzi – prodotti da accordi fra i partiti difformi dalle loro posizioni elettorali.
Mentre Scalfaro nell’autunno del 1994 convocò festosamente al Quirinale Umberto Bossi, che ha raccontato più volte di averne ricevuto incredibili sollecitazioni a rompere l’intesa raggiunta pochi mesi prima con Berlusconi e a farne cadere il governo, come poi accadde, Napolitano nell’autunno del 2010 frenò la corsa alla crisi innescata, sempre contro Berlusconi, dal presidente di Montecitorio Gianfranco Fini. Nel cui ufficio addirittura si erano svolte riunioni per predisporre una mozione di sfiducia.
In particolare, fu Napolitano a convincere i presidenti delle Camere ad accantonare la partita della crisi per dare la precedenza alla legge di stabilità finanziaria. E quel rinvio servì a Berlusconi per sconfiggere i finiani nella votazione sulla sfiducia e proseguire con il proprio governo ancora per quasi un anno, sino all’epilogo per forza maggiore da lui stesso accettato con la nomina di Monti.
Tutto questo, come anche il ricordo della rapida, convinta e motivata promulgazione, nel 2008, fra le proteste di Antonio Di Pietro e affini, dello scudo giudiziario dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi, poi bocciato dalla Corte Costituzionale, rende francamente amaro e ingiusto il sollievo che pure dalle parti berlusconiane, e non solo da quelle di Beppe Grillo e dintorni, viene espresso per l’uscita di Napolitano dal Quirinale.