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Ubi, Bpm e Bper. Ecco come e perché i titoli Popolari brindano in Borsa

“Ci sono troppi banchieri e banche, ma poco credito per le piccole e medie imprese”. Con queste parole Matteo Renzi ha prefigurato nel corso dell’ultima Direzione del Partito democratico i contorni del “pacchetto investimenti” che approderà oggi in Consiglio dei ministri.

LE MIRE DI RENZI

Allo studio del governo è un decreto legge chiamato “Investment Compact” che, scrive Paolo Pittaluga sul quotidiano Avvenire, potrebbe rendere la realtà bancaria italiana “meno pluralista e più uniforme rispetto ai modelli anglosassoni”.

Palazzo Chigi vuole modificare gli articoli del Testo unico bancario concernenti proprio le banche popolari e di credito cooperativo.

L’obiettivo è abrogare il “voto capitario” che guida le scelte e la vita di tali realtà creditizie. Per cui ogni socio ha un voto, a prescindere dalla quantità di azioni possedute. Il progetto messo in campo dall’esecutivo mira poi cancellare il divieto di detenere partecipazioni superiori all’1 per cento del capitale e il limite minimo di 200 aderenti.

Fattori che a giudizio del premier rallentano e cristallizzano il processo decisionale rendendo possibili arbitrii di varia natura. Attraverso misure richieste dalla Banca d’Italia e dalla Commissione Ue soprattutto per le banche popolari più grandi e presenti in Borsa, Renzi punta a razionalizzare e rafforzare un tessuto creditizio frammentato in decine e decine di istituti, favorendone l’accesso a costi accettabili per i cittadini.

L’EXPLOIT A PIAZZA AFFARI

Il cambiamento delle regole vigenti aprirebbe un mondo tradizionalmente legato ai territori e alle peculiarità produttive locali a percorsi di aggregazione, acquisizione e ingresso da parte di gruppi finanziari e investitori istituzionali. E c’è anche chi ipotizza, come un articolo della Reuters, che questa incursione governativa con un decreto potrebbe favorire l’operazione Mps/Ubi oppure sinergie tra Bpm e Carige.

La prova tangibile giunge dalle reazioni dei mercati. La Borsa di Milano ha registrato per l’intera giornata impennate record per i titoli delle banche popolari che, essendo considerate più contendibili dopo la riforma in fieri dell’esecutivo, hanno dunque maggiore appeal borsistico.

L’apertura degli scambi a Piazza Affari ha portato Bper a un +11,35 per cento, Bpm a +12,70, Bp a +8,65, Ubi Banca a +8,87, Popolare di Sondrio a +5,86, Credito Valtellinese a +7,86. Ripetutamente sospese per eccesso di rialzo, tali azioni hanno contribuito a far guadagnare l’1,17 per cento all’indice Ftse Mib in chiusura di contrattazioni. Bpm ha riportato un clamoroso +14,89 per cento, Ubi un +9,68, Bper un +8,51, Banco Popolare un +8,33, Etruria un +8,2, Bps un +8,06, Creval un +9,63.

I VANTAGGI DEL CAMBIAMENTO SECONDO REPUBBLICA E CORSERA

Conferma, rimarcava ieri Vittoria Puledda su Repubblica Affari&Finanza, di una scommessa ampiamente condivisa su un elenco variegato di operazioni straordinarie che a vario titolo coinvolgono le banche popolari. “Animate da progetti di aggregazione e allo stesso tempo meritevoli di una riforma necessaria per far andare in porto qualsiasi operazione di capitale importante”.

Positivo anche il commento odierno del Corriere della Sera con un editoriale del vicedirettore con delega all’economia, Daniele Manca, che critica l’attuale assetto delle banche popolari e di credito cooperativo, accuse di scarsa efficienza e di governance vetuste a volte familistiche.

A illustrare le conseguenze benefiche dell’intervento promosso dal governo sono le analisi di Mediobanca Securities riportate da Radiocor Il Sole 24 Ore: “La riduzione significativa di un’industria molto frammentata, la prospettiva di  maggiori profitti grazie a economie di scala più rigorose, le migliori condizioni patrimoniali delle nuove realtà bancarie”.

I TIMORI DEI SINDACATI

Un mutamento storico, che va a incidere nel profondo della loro fisionomia rendendole più affini agli istituti creditizi commerciali organizzati in società per azioni. E che per tale ragione ha alimentato le reazioni critiche di un panorama eterogeneo dal punto di vista politico, sociale e culturale.

A partire dalle organizzazioni sindacali, che temono il rischio di ulteriori esuberi in un comparto nel quale dal 2000 a oggi 48mila lavoratori dipendenti sono andati in pensione anticipata. E in cui si registrano tuttora 12mila eccedenze di personale.

I RILIEVI DI ASSOPOPOLARI

A contestare i nuovi meccanismi di governance allo studio dell’esecutivo è innanzitutto il presidente di Assopopolari Ettore Caselli.

Che riconosce la necessità di concepire un modello di banca popolare più rispondente alle mutate aspettative del mercato. E ricorda le proposte elaborate a tal fine da una commissione composta da Angelo Tantazzi, Piergaetano Marchetti e Alberto Quadrio Curzio. “Progetto – spiega – capace di coniugare i giusti elementi di novità con l’equilibrio degli interessi in gioco e la continuità dei valori dell’universo creditizio popolare”.

LA PAROLA AGLI ECONOMISTI

Ancor più radicali le obiezioni avanzate su Formiche.net da Giovanni Ferri, professore di Economia politica all’Università Lumsa di Roma, di cui è prorettore. Il quale rileva le performance deludenti fornite a livello globale dalle banche organizzate come società per azioni rispetto a quelle cooperative: “Molto meno esposte ad attività di tipo finanziario e pertanto più robuste verso i riflessi della crisi del 2008”.

Lo studioso ritiene poco fondate anche le critiche rivolte al meccanismo di voto “capitario” come fondamento di scarsa responsabilità degli amministratori delle Popolari nei confronti degli azionisti. “Ceo e ad di istituti creditizi commerciali e d’affari hanno continuano a godere di bonus spropositati a fronte di prestazioni tutt’altro che soddisfacenti”.

Il problema, evidenzia l’economista, è la pressione internazionale a favore dell’adozione di un modello bancario uniforme finalizzato al più ampio rendimento per gli investitori. “Ma la riduzione di tale pluralismo aumenta la fragilità degli assetti bancari dei vari paesi”.

Tanto più per l’Italia fondata sul un tessuto capillare di piccole e medie imprese a conduzione familiare. Realtà a cui si attaglia, osserva Ferri, il relationship banking tipico del credito popolare e cooperativo.

PROGETTO GIACOBINO?

Riflessione sviluppata dall’economista esperto di micro-credito Leonardo Becchetti, che su Avvenire punta il dito contro “la volontà di mettere a repentaglio la democrazia economica del nostro paese”.

L’iniziativa promossa dal premier in contraddizione con le ripetute lodi al Terzo settore, precisa lo studioso, rischia di restringere la concorrenza e confondere mercato e oligopoli: “Mentre risiede nella ricchezza e molteplicità delle organizzazioni creditizie la capacità di resistere agli choc finanziari”.

Per tale ragione Becchetti parla di “follia superficiale e giacobina contro le banche popolari e cooperative che libererebbe la strada alle grandi lobby multinazionali unicamente animate dalla fame di profitti”.

Sulla stessa lunghezza d’onda anche lo storico ed economista Giulio Sapelli che, in una conversazione con Formiche.net, ha parlato di colpo di Stato in corso per decreto contro le banche popolari. Qui i dettagli del commento di Sapelli.

LE CIFRE

Per lo studioso il progetto governativo risulta ancor più inaccettabile alla luce di cifre eloquenti. “Le banche a struttura cooperativa presentano un rapporto tra credito e totale degli attivi mediamente superiore di 5 punti percentuali rispetto agli altri istituti creditizi. Fossato che in Italia raggiunge i 16 punti. E rispetto a un calo di 52 miliardi nell’erogazione di risorse registrato per le banche commerciali, le banche popolari hanno prestato 6,3 miliardi in più di credito nel triennio 2010-2013”.

La storia finanziaria recente, scrive Becchetti, insegna che la crisi globale è stata provocata da “banche troppo grandi per fallire e troppo complesse per essere regolate. Realtà che hanno rischiato di trascinarci tutti nel baratro, prima di essere salvate grazie a ricorsi massicci a fondi pubblici”.

LO SCENARIO DI BECCHETTI

Anziché abrogare il principio “una persona-un voto”, l’economista propone di focalizzare l’attenzione sui progetti di legge di separazione tra banche commerciali e banche d’affari.

L’alternativa, scrive sul suo blog su Repubblica, è permettere “ai grandi gruppi finanziari stranieri di mettere le mani sul risparmio del nostro paese. È accaduto con l’idea balzana di vendere le fondazioni per pagare il conto dello spread. E avviene ogni volta che la soluzione per il problema del debito pubblico viene ravvisata nella privatizzazione di Enel, Eni e Poste Italiane”.

FRONTE BIPARTISAN CONTRO IL PROGETTO RENZIANO

Cautela, riflessione, richiesta di confronto, aperta ostilità. Le reazioni di rappresentanti autorevoli del mondo accademico e creditizio all’intenzione dell’esecutivo trovano consonanza nelle risposte prevalenti nel ceto politico, riportate da Milano Finanza.

Pur ammettendo l’esigenza di interventi mirati nel terreno delle banche popolari, il presidente del gruppo parlamentare Per l’Italia-Centro Democratico a Montecitorio Lorenzo Dellai chiede al governo di procedere con prudenza e senza superficialità: “Costringere le piccole e medie banche cooperative a macro-fusioni imponendo soglie patrimoniali irragionevoli rischia di distruggere un modello di credito cruciale per lo sviluppo locale e la tenuta sociale dell’Italia”.
Un modello che, aggiunge il vice-presidente del Senato e rappresentante di Forza Italia Maurizio Gasparri, il decreto legge allo studio di Palazzo finisce per rendere scalabile e stravolgere”.

Argomentazioni in sintonia con le parole pronunciate dal parlamentare ed esponente della minoranza del Partito democratico Stefano Fassina: “Le piccole e medie imprese e le famiglie italiane hanno trovato proprio nelle banche popolari e di credito cooperativo l’unico canale di approvvigionamento di risorse attivo negli anni di crisi. L’obiettivo è fare un ennesimo regalo alle grandi istituzioni finanziarie multinazionali, che arriverebbero a controllare anche il nostro credito diffuso”.

Volontà negata dal deputato popolare del Pd Giuseppe Fioroni, che reputa necessario moralizzare la realtà creditizia italiana pur senza rimuovere “la garanzia di pluralismo, responsabilità, democrazia economica, accesso al mercato rappresentata dal voto capitario delle banche popolari”. Emblema ai suoi occhi della vitalità di un tessuto finanziario fondato sul ruolo dei corpi sociali intermedi: “Anche e soprattutto di ispirazione cattolica”.


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