“Non si tratta di danneggiare la storia di piccoli istituti, ma di far sì che le banche sul territorio siano all’altezza delle sfide europee e mondiali”. Così il premier Matteo Renzi ha rivendicato il “valore storico” della riforma, tramite decreto legge, del panorama delle banche popolari italiane. A partire dalle 10 realtà più grandi, con un patrimonio superiore a 8 miliardi di euro, che entro 18 mesi saranno chiamate a trasformarsi in società per azioni grazie al superamento del “voto capitario”.
Per capire cosa cambia realmente con un provvedimento che ha fatto parlare di “rottamazione delle Popolari”, Formiche.net si è rivolta all’economista esperto di micro-credito Leonardo Becchetti, editorialista di Avvenire e autore di un blog sul sito di Repubblica.
L’economista Luigi Guiso ha scritto su La Voce.info che un’innovazione delle banche popolari nella direzione di una marcata concorrenza può portare a una governance più efficiente con evidenti vantaggi per i risparmiatori.
Le realtà finanziarie sono costituite da “biodiversità” fondamentali per la stabilità e la capacità di reagire alle crisi. Eliminare una componente di tali sistemi è un attentato alla democrazia, al mercato e alla concorrenza. Che esistono perché i correntisti possono trasferire i propri depositi verso altri istituti creditizi, e i soci possono vendere le loro quote di partecipazione. Fenomeno che sempre più frequentemente vede transitare risorse dalle banche-società per azioni a quelle di tipo cooperativo.
Ma il principio “una testa-un voto” rende molto arduo il mutamento del controllo delle banche popolari rispetto a vertici poco efficienti.
È come affermare che l’eguaglianza del suffragio di ogni cittadino alle elezioni politiche abbia carattere anti-moderno. Ritiene migliore un “voto per censo” per cui la scelta di un finanziere come George Soros vale mille rispetto alle persone comuni? Un ragionamento del genere considera democrazia e impresa due concetti inconciliabili.
Aprire le banche popolari a processi di aggregazione e interventi finanziari di investitori esterni non può portare a un loro rafforzamento?
La storia dimostra che più le banche crescono più aumenta il rischio di grandi crisi sistemiche finanziarie. Nessuna delle quali è stata provocata da banche popolari o di credito cooperativo. Ne sono prova i processi di “demutualizzazione” realizzati volontariamente nel Regno Unito. Che al posto di un tessuto virtuoso di istituti con forti radici nel territorio hanno condotto alla creazione di giganti speculativi.
Il responsabile dell’Economia Pier Carlo Padoan ha affermato che la “scossa innovativa” riguarda esclusivamente le 10 maggiori Popolari. Per le altre 60 non cambia nulla.
Il capo del Tesoro deve avere la sincerità di spiegare che il progetto iniziale era ben più radicale. E puntava ad abolire il “voto capitario” per tutte le banche popolari e di credito cooperativo. Per fortuna sono scattati gli anticorpi della società civile.
La stupisce che Padoan abbia condiviso l’iniziativa del Presidente del Consiglio?
Bisogna digerire tanti rospi quando si rivestono responsabilità politiche di alto livello. Tanti colleghi stimati lo hanno dovuto fare. So quanti di loro sono convinti dello scempio compiuto. Accettato tuttavia per non sollevare polemiche.
Non vi è proprio nulla da cambiare nel panorama delle banche cooperative?
È possibile e ragionevole attuare un’opera di persuasione morale per spingere un istituto creditizio popolare in crisi a seguire percorsi di aggregazione. Ed è giusto che l’autorità di vigilanza del mondo bancario obblighi in casi specifici a scelte del genere. Ma stabilire per legge il principio che una banca popolare sana e in crescita smetta di erogare credito in forma solidale e sussidiaria è aberrante. Perché costituisce un’aggressione al mercato e all’auto-organizzazione dei corpi sociali.
Nel tessuto industriale molti “campioni nazionali” sono stati salvati e rilanciati grazie all’investimento di gruppi stranieri.
Guardi, io sono favorevole ai processi di globalizzazione economica. E apprezzo l’iniziativa del governo per operazioni come Alitalia-Etihad o per la risoluzione di gravi crisi industriali. Ma nel settore bancario le cose sono un po’ diverse.
Perché?
Le “case madri” dei grandi istituti creditizi internazionali non vengono in Italia soprattutto per fare credito a famiglie, imprese e territori, visto che tale mestiere rende poco. Allo sportello queste banche vendono di tutto pur di creare valore per gli azionisti. La loro vera priorità.
Quali sono dunque le finalità dell’intervento di urgenza promosso dal governo in un terreno così delicato?
Prima di tutto non vedo nessun motivo di necessità e urgenza che giustifichi l’adozione di un decreto legge, alla luce dei 18 mesi concessi alle banche popolari per adeguarsi alle nuove regole. Rilevo in ogni caso che la riduzione delle tutele sul lavoro e l’iniziativa per rendere scalabili istituti creditizi ricchi e in salute crea uno scenario appetibile per molte realtà finanziarie.
Non conosco i loro nomi. Ma rilevo come l’economista Salvatore Bragantini abbia individuato sul Corriere della Sera la ragione dell’intervento del governo “nella necessità di ristrutturazione delle banche italiane uscite male dagli stress test della Bce”. Per Monte dei Paschi di Siena e Carige, rimarca l’editorialista, si parla di aumenti di capitale o fusioni che coinvolgerebbero istituti creditizi popolari.
Bragantini critica anche la mancanza di una “saggia e coraggiosa auto-riforma” da parte delle Popolari.
Non condivido l’obiezione. Gli elementi di fragilità emersi con gli stress test della Bce non riguardano il tessuto di banche popolari che hanno retto molto bene alla tempesta finanziaria globale. Ma concernono realtà come Mps e Carige, nelle quale abbiamo riscontrato la clamorosa carenza di vigilanza, presidio e attenzione ai rischi. Era lì il problema.
Lo storico dell’economia Giulio Sapelli parla di “golpe contro le Popolari realizzato da un premier soggetto a una pressione molto forte dell’oligopolio finanziario internazionale”.
Concordo con le sue riflessioni. Un provvedimento coercitivo affine alla logica dell’esproprio non si è mai visto in nessun paese democratico. È una misura senza eguali in un’Europa che custodisce e valorizza le esperienze di credito cooperativo e territoriale.
Nella scelta del governo è stato cruciale l’orientamento della Banca d’Italia, che da tempo vuole cambiare lo status delle banche popolari?
Bankitalia ha esercitato un ruolo importante in tale decisione. E ha toccato il punto più basso della sua storia gloriosa. L’istituto di Via Nazionale ha rimosso l’eredità di una visione pluralista della proprietà bancaria. E la responsabilità concerne i suoi vertici, cui si è rivolto Renzi prima di presentare il provvedimento legislativo.
Se Giorgio Napolitano fosse stato ancora Presidente della Repubblica, il premier avrebbe promosso quel decreto legge?
Sinceramente non saprei. Certo, Renzi è un “ex popolare”. La sua visione del vasto mondo dell’economia cooperativa e civile del nostro paese la si ricava da tale scelta. E non dalle sue parole di elogio per l’opera del Terzo settore.