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Ecco cosa insegna il voto in Grecia

Che cosa insegna il voto greco? Mostra come al fondo delle convinzioni delle persone comuni (ad Atene come a Roma o a Parigi) vi sia più che un’idea ben articolata, un forte istinto a considerare come in tempi di sbandamento dell’ordine politico mondiale e di globalizzazione economico-finanziaria, l’essenziale strumento per tentare di rimanere ai tavoli – da parte di quelli che una volta si chiamavano “i popoli” – tenda a essere un minimo di sovranità nazionale: da qui un premio a chi si colloca su questo fronte.

Molti esperti, però, costretti a confrontarsi con questa tendenza invitano a riflettere su cicli finanziari così delicati che significative interferenze potrebbero produrre effetti devastanti perché “cadute” della fiducia del tipo di quella del 2008 finirebbero per provocare guasti così profondi da non essere prevedibili e, oltre a una certa misura, rimediabili.

Però chi si occupa criticamente delle vicende umane sa che non esistono solo i cicli finanziari ma anche quelli politici, guidati innanzi tutto dalle forme che le comunità (e dentro queste le singole persone) determinano per dare un senso alla propria esistenza. E quando queste “forme” impazziscono, impazziscono anche le comunità (e le singole persone) rendendo incontrollabili i loro comportamenti esattamente come in una crisi finanziaria: dal crollo dell’Impero romano alla Prima guerra mondiale, è difficile decidere se le cause essenziali di esiti catastrofici siano state più economiche o più storico-antropologiche.

Dopo il 2008 ci si è dedicati con raffinatezza – grazie anche a grandi intellettuali oltre che tecnici come Ben Bernanke e lo stesso Mario Draghi – a mantenere i cicli finanziari in un adeguato stato di funzionamento con risultati eccellenti negli Stati Uniti, molto arrabattandosi invece –grazie alla miopia tedesca – in Europa. Invece sul versante politico si è assistito a un declino delle leadership occidentali a iniziare dal superparolaio Barack Obama proseguendo con la Grande bottegaia Angela Merkel o il superbollito François Hollande e il semi-bollito David Cameron: invece di un’idea che stabilizzasse la politica come la finanza (per esempio con una costruzione minimamente razionale e realistica dell’Europa che sostituisse la soffocante retorica che copre oggi un assetto puramente tecnocratico privo di quella drammatica legittimità attribuitagli da una Guerra fredda ormai finita da venti anni, o consolidando le relazioni con la Russia e costruendo così un fronte di alleanze più ampio e solido) si sono sviluppati egemonismi per di più rinunciatari, senza neanche vera dignità imperiale: tra l’altro rendendo abbastanza complicata una delle principali vie di freno dell’instabilità che sarebbe un trattato per un mercato “più unitario possibile” transatlantico. Da qui il disordine che possiamo rimirare e le reazioni di difesa.

Chi non ha presente questo contesto in politica è destinato a concentrarsi solo su giochi da nomenklatura o al limite su difese di interessi un po’ troppo personali. Ma anche chi affronta questo scenario puntando solo sulla forza degli slogan o di scelte magari positive ma che non ricostruiscono adeguatamente un tessuto sociale (certo non così corporativo come quello del passato italiano, certo più aperto ma legato comunque a una storia concreta che non può essere rimossa) oggi in via di disgregazione (si rifletta su come crisi dello Stato sociale e precariato giovanile agiscano antropologicamente – la formazione dei nuclei familiari tende a spostarsi a metà dei trenta anni – oltre che economicamente sulle società europee) finiranno per essere battuti (alla fine una paura anche ragionevole perde contro speranze anche molto approssimative) da chi riuscirà a evocare in qualche modo (non sempre perfettamente razionale) un’idea di partecipazione: e questo – per lanciarsi in una  schematica previsione – potrebbe avvenire con una ricostruzione di densità/identità sociale a destra dove governa la sinistra (vedi Marine Le Pen in Francia) e a sinistra dove governa la destra (vedi Atene e Madrid).

La possibilità che il nostro Matteo Renzi finisca come il – forse più serio e sicuramente più legittimato dal voto – Antonis Samaras, che il duo Silvio Berlusconi-Angelino Alfano si riduca agli spazi che in Grecia occupa il Pasok e che Matteo Salvini finisca per diventare il nostro Alexis Tsipras, non è del tutto irrealistica pur dando per scontate tutte le diversità del contesto italiano, non privo di punte di pura irrazionalità come Beppe Grillo, e con una mancanza di quella soluzione di continuità tra Lega e Forza Italia che invece c’è tra Ump e Fn, così come tra Pasok e Syriza e Psoe e Podemos.


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