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Quirinale, ecco perché Renzi intima scheda bianca al Pd nelle prime tre votazioni

I fatti diranno se Matteo Renzi è stato più coraggioso o temerario decidendo, salvo ripensamenti, di sterilizzare con le schede bianche dei parlamentari e delegati regionali del suo partito le prime tre votazioni per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, quando sarà necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea. Che è un obiettivo riconosciuto impossibile dal presidente del Consiglio e segretario del Pd sia per la mancanza di un accordo così ampio con altri gruppi sia per il timore della comparsa dei soliti franchi tiratori nel suo partito.

La paura della dissidenza interna si è rivelata tanto forte da evitare, sempre salvo ripensamenti, il ricorso al cosiddetto candidato di bandiera, che non ha una maggioranza per essere eletto ma dovrebbe servire in teoria a misurare la compattezza sotto la bandiera, appunto, di un nome.

La natura non si sa se più coraggiosa o temeraria della scheda bianca disposta da Renzi deriva dal fatto che con questo tipo di votazione non si disarmano automaticamente i malintenzionati, sprovvisti d’”intelligenza”, oltre di “fedeltà”, direbbe il presidente del Consiglio.

Protetti da un catafalco appositamente predisposto sotto i banchi della presidenza, i dissidenti potrebbero deporvi le loro schede non bianche ma compilate, scrivendovi magari il nome di Prodi. E compilarle con una rapidità tale da non lasciare sospetti a chi volesse controllarli all’uscita dalla cabina con il cronometro in mano, dopo che altri dello stesso gruppo li hanno magari controllati in qualche modo all’entrata.

Una comparsa di renitenti alla disciplina di partito nei tre passaggi di approccio alla prima o prime due votazioni a maggioranza assoluta, già considerate forse con troppo ottimismo da Renzi come sufficienti a chiudere la partita con l’elezione del successore di Giorgio Napolitano, potrebbe complicare tutto al segretario del Pd, anche in presenza di un forte accordo stretto con Berlusconi dietro le quinte.

Quando i partiti erano solidi o meno liquidi di adesso, i dirigenti andavano cauti anche nel ricorso alla scheda bianca nelle aule parlamentari per tutelare posizioni di attesa e preparare accordi su candidati comuni o condivisi da altri. Fa scuola, a questo proposito, la vicenda che portò nel 1971 al Quirinale il democristiano Giovanni Leone.

Le votazioni a Montecitorio cominciarono il 9 dicembre con la Dc già schierata in campo con il suo candidato effettivo, che era il presidente del Senato Amintore Fanfani. Al quale però già nei primi tre scrutini non riuscì il pieno dei voti di bandiera del suo partito. Ma neppure dalla quarta votazione in poi, quando divennero necessari solo 505 voti, il candidato della Dc riuscì a migliorare la propria posizione, ferma fra i 385 e i 378 del sesto scrutinio, il 12 dicembre.

I dirigenti della Dc, allora guidata dal segretario fanfaniano Arnaldo Forlani, decisero a quel punto di prendersi una pausa per cercare alleati sino ad allora mancati. Ma non si fidarono di far votare scheda bianca ai loro parlamentari, temendo che ce ne fossero troppi pronti a giocare carte e candidati a scrutinio segreto con altri partiti. Fu perciò disposto che i cosiddetti grandi elettori dello scudocrociato si astenessero, evitando di ritirare la scheda.

I democristiani sfilarono davanti al banco della presidenza di Montecitorio senza votare per quattro volte, dal 13 al 14 dicembre, quando Fanfani, che non si rassegnava alla rinuncia, pretese e ottenne un’ultima prova sul suo nome, fermandosi però a 393 voti. Allora Forlani puntò i piedi e, avviando una rottura con il suo capocorrente che si sarebbe consumata del tutto negli anni successivi, passò alla ricerca di un altro candidato democristiano capace di raccogliere voti anche fuori dal suo partito. Non fu una ricerca facile, con la Dc divisa tra le aspirazioni della sinistra e la disponibilità dello stesso segretario per Aldo Moro e l’ostilità delle altre correnti, che in una votazione interna ai gruppi preferirono alla fine Leone per sei o sette voti di differenza.

Mentre la Dc cercava affannosamente il nuovo candidato, le votazioni nell’aula di Montecitorio continuarono con il rito delle astensioni scudocrociate per ben dieci volte in nove giorni. L’unico democristiano che si rivoltò pubblicamente a quello che definì “sequestro” della scheda da parte dei dirigenti del partito fu il senatore a vita e di diritto Giovanni Gronchi, ex presidente della Repubblica. E lo fece dichiarando di voler votare Moro, la cui candidatura però non decollò, come si è detto, dalla Dc perché in aula arrivò alla fine quella di Leone. Che mancò per un voto l’elezione al ventiduesimo scrutinio e tagliò finalmente il traguardo il giorno dopo, vigilia di Natale, al ventitreesimo scrutinio, con 13 voti in più dei 505 necessari. Il richiamo dei familiari attorno al presepe risultò più forte dei franchi tiratori.



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