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Renzi, la carta vincente di Mattarella e tutte le possibili brutte sorprese

Il no di Silvio Berlusconi a Sergio Mattarella, il candidato di Matteo Renzi a presidente della Repubblica, è quello che ha fatto sicuramente più rumore nella partita politica e istituzionale in corso a Montecitorio. Un no assordante per lo spessore ancora consistente dell’ex Cavaliere ed ex senatore. Un no pesante per la denuncia fatta dallo stesso Berlusconi del vulnus procurato dal giovane presidente del Consiglio al cosiddetto patto del Nazareno, stipulato fra i due soltanto un anno fa per portare avanti le riforme della legge elettorale e della Costituzione: mica cose da poco.

Il fondatore di Forza Italia ha sempre rispettato quel patto, consentendo in modo decisivo dai banchi formali dell’opposizione i passaggi parlamentari più controversi delle riforme, contestati all’interno dei partiti di Renzi e dello stesso Berlusconi. Passaggi ai quali dovranno seguirne ancora altri, che potrebbero adesso mettere in serie difficoltà il presidente del Consiglio costringendolo o a richiedere l’aiuto di Berlusconi, a condizioni che potrebbero risultargli più onerose, o a capitolare alle modifiche inutilmente pretese nelle settimane e nei mesi scorsi dalla minoranza pur variegata  del Pd. A meno che quest’ultima, paga della vittoria conseguita con la candidatura di Mattarella al Quirinale invisa a Berlusconi, non rinunci a tutto il resto.

Eppure, nonostante la portata già così considerevole di questi possibili effetti del “metodo” contestato a Renzi dai berlusconiani nella partita del Quirinale, il no dell’ex Cavaliere alla candidatura di Mattarella non è quello politicamente più rischioso per il presidente del Consiglio. Lo è invece il no del partito del suo ministro dell’Interno Angelino Alfano, il Nuovo Centrodestra, che sulla giostra del Colle si è ritrovato in sintonia con Berlusconi. Una sintonia che potrebbe tradursi nel superamento delle ragioni che li portarono alla rottura nell’autunno del 2013, quando l’ex Cavaliere per ritorsione dopo la propria decadenza da senatore a causa dei suoi guai giudiziari uscì dalla maggioranza delle cosiddette larghe intese patrocinate dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, mentre Alfano e gli altri ministri di centrodestra in nome della stabilità e delle riforme rimasero nel governo di Enrico Letta. E passarono poi in quello di Renzi.

In verità, dal partito di Alfano si sono levate voci di assicurazione o di auspicio che la frattura consumatasi nella partita del Quirinale non comprometta la sopravvivenza del governo e della sua maggioranza. Ma certe cose sono più facili a dirsi che a farsi, per cui non si può per niente escludere che, avendo comportato la divisione della maggioranza, l’elezione di Mattarella a presidente della Repubblica non sfoci prima o poi, e più prima che poi, in una crisi governativa. Che trasformerebbe quella quirinalizia di Renzi in una vittoria di Pirro. A meno che il giovane presidente del Consiglio non si sia diabolicamente mosso come si è mosso proprio per arrivare a una crisi. E ottenere dal nuovo e grato capo dello Stato, salvo inconvenienti derivanti dalla imprevedibilità di chiunque arrivi al Quirinale, quelle elezioni anticipate più volte minacciate, a dispetto delle riforme da portare ancora a termine, da quando il quasi 41 per cento dei voti raccolto nelle elezioni europee della scorsa primavera, pur in un mare di astensioni, ha letteralmente inebriato il giovanotto toscano.

Per quanti sforzi potranno o vorranno fare Alfano e i suoi per evitarla, temendo le urne senza avere il tempo di ricostruire con Berlusconi una coalizione di centrodestra davvero competitiva con il Pd renziano, una crisi di governo dopo una rottura sul Quirinale potrebbe spuntare come il fungo dopo una pioggia. D’altronde, non vi è nella storia della Repubblica un governo che sia riuscito a sopravvivere alle divisioni prodottesi al suo interno sulla strada del Quirinale.

Nel 1955, poco dopo l’elezione a sorpresa di Giovanni Gronchi al Quirinale, cadde il governo centrista guidato da Mario Scelba. Il 15 gennaio del 1972 cadde un governo di centrosinistra guidato da Emilio Colombo per le divisioni procuratesi nella maggioranza con l’elezione di Giovanni Leone a presidente della Repubblica, avvenuta tre settimane prima senza il concorso dei socialisti. Alla crisi seguì quella volta lo scioglimento anticipato delle Camere, come appunto potrebbe avvenire questa volta per l’inconciliabilità fra le ben tre maggioranze volute da Renzi: quelle del governo, delle riforme e del Quirinale. Ma dalle urne, senza la nuova legge e il ripristino del premio di maggioranza abolito dalla Corte Costituzionale, potrebbero arrivare al segretario del Pd anche brutte sorprese.



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