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A che punto è la guerra di Cgil e Fiom contro il Jobs Act

La Cgil ha spiegato come si svolgerà la “seconda fase” della lotta alla nuova disciplina del licenziamento individuale annessa al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (istituito con la legge n. 183 del 2014), di cui è all’esame delle Commissioni Lavoro lo schema di decreto attuativo. Oltre all’annunciato ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, la Cgil svilupperà delle iniziative, a livello della contrattazione collettiva decentrata, per “superare” la nuova normativa e ripristinare quella previgente.

Il medesimo impegno è stato assunto dalla Fiom. Ciò lascia presumere – osservando i precedenti – che in quell’area, compresa tra Bologna, Modena e Reggio Emilia (che nell’immediato dopoguerra venne definito il “triangolo della morte”) se ne vedranno delle belle perché sarà lì che la Fiom (come ha potuto fare anche per le ben note vicende contrattuali) avrà la forza di imporre alle aziende le sue questioni di principio. Ma senza voler anticipare i tempi è il caso di soffermarsi sulla praticabilità degli obiettivi che la Cgil e le sue organizzazioni si propongono di realizzare. Perché il progetto divenga possibile, occorrerà percorrere fino in fondo una strada obbligata: fare ricorso al famigerato articolo 8 del decreto legge n. 138 del 2011 (convertito con legge n.148 del medesimo anno).

Che cosa si proponeva quella norma tanto criticata al punto da essere sottoposta ad un referendum abrogativo fino ad ora rinviato? Si trattava di consentire alle parti sociali di derogare, mediante la contrattazione di prossimità (ovvero quella più vicina all’impresa) dalle normative uniformi, di legge e di contratto, per valorizzare, invece, le effettive differenze, assumendosi anche la responsabilità di promuovere flessibilità organizzative e produttive. L’articolo 8 della legge consentiva, infatti, ad di negoziare, tra le altre materie, anche gli effetti e le conseguenze del recesso dal rapporto del lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e per quello in occasione di matrimonio e in altri casi come la tutela della maternità (che mantenevano il diritto a reintegra).

A dare assicurazioni contro il possibile dumping sociale ad opera di “sindacati gialli”, era stata meglio chiarito – rispetto al testo iniziale – l’aspetto della rappresentanza e rappresentatività. In proposito, il comma 1 disponeva che i contratti collettivi di lavoro aziendali o territoriali, sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda in base alla legge e agli accordi confederali vigenti (compreso, pertanto, quello del 28 giugno 2011), potevano realizzare specifiche intese, con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario di rappresentanza sindacale, finalizzate – è importante l’indicazione puntuale delle finalità – alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività.

Il comma 2 elencava le materie inerenti all’organizzazione del lavoro e della produzione oggetti possibili delle intese. In quest’ambito sollevò molte polemiche (di qui anche l’iniziativa referendaria) il fatto che – come abbiamo già ricordato – tali intese negoziali potessero riguardare pure le “conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro”, ad eccezione del licenziamento discriminatorio e del licenziamento lesivo dei diritti riconosciuti alla lavoratrice. Si mosse allora la “confraternita del non si tocca” e della sacralità dell’articolo 18 dello Statuto. La stessa che oggi si accorge che una norma di flessibilità può essere usata anche per correggere l’impostazione del Jobs Act in materia di licenziamenti.

È evidente che le “maledizioni di Montezuma” lanciate dalla Cgil, prima o poi, ritornano indietro come boomerang. Quella norma poteva essere usata, in chiave derogatoria, per affrontare, attraverso la contrattazione decentrata, tanti problemi, ivi compresa la sperimentazione di forme meno rigide di licenziamento, in modo a tracciare una rotta da seguire attraverso successive azioni legislative. L’articolo 8, invece, è stato oggetto di un’ostilità becera, al punto da non venire nemmeno citato, nei testi sottoscritti, laddove si era costretti ad applicarlo in concreto. Poi, a settembre del 2011, Confindustria e Cgil, Cisl e Uil si impegnarono persino a non avvalersene, tanto che la Fiat non si sentì più tutelata dall’organizzazione di viale dell’Astronomia e decise di uscirne.

A suo tempo di quella norma, infatti, venne assai criticato anche il comma 3 il quale stabiliva che tutti i contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, fossero efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive a cui il contratto si riferiva, a condizione che il contratto medesimo fosse stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori. La chiamarono – con disprezzo – la norma salva-Fiat, i cui accordi separati di Pomigliano, Mirafiori ed ex Bertone erano stati espunti (le parti si erano sottoposte ai diktat della Cgil) dagli effetti derivanti dall’intesa del 28 giugno 2011, in quanti precedenti rispetto alla data di entrata in vigore dell’accordo interconfederale stesso che, in teoria, doveva risolto la questione della rappresentanza e della rappresentatività nella stipula degli accordi nazionali e decentrati.

Grazie al decreto, invece, questa data (di origine e natura contrattuale) non aveva più alcun ruolo discriminante, in quanto veniva disposto, nel comma citato, che bastava l’approvazione da parte della maggioranza dei lavoratori perché l’accordo raggiunto in azienda avesse validità erga omnes. Alla Fiat (ora FCA) a causa di questi accordi è stata condotta una guerra senza quartiere, in sede sindacale, politica e giudiziaria, con un appoggio mediatico inverecondo. Adesso, di fronte all’annuncio di nuove assunzioni e del rientro dalla cassa integrazione per di migliaia di lavoratori, anche Maurizio Landini ha dovuto ricredersi.

Tornando, conclusivamente, alla problematiche del recesso, verrebbe quasi da prefigurare una pochade a sfondo sindacale in cui la Cgil e la Fiom, dopo aver imposto – tramite l’applicazione dell’articolo 8 – a diverse aziende il ritorno all’articolo 18 ancien règime, si trovassero a dover fornire le indicazioni di voto nel referendum abrogativo da loro promosso. Saremmo, allora, al “contrordine, compagni!” delle vignette del settimanale satirico “Il Candido”, che ebbe un certo successo nell’immediato dopoguerra, anche perché ospitava i racconti di Giovanni Guareschi, che hanno resi famosi i personaggi di Peppone e don Camillo.


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