La causa di beatificazione di Oscar Romero giaceva in Vaticano da quasi vent’anni, rimpallato tra le congregazioni per la Dottrina della fede e quella per le Cause dei Santi. Ora il Papa ha impresso un’accelerazione e ieri – come da tempo era nell’aria – ha autorizzato il dicastero guidato dal cardinale Angelo Amato a promulgare il decreto riguardante il martirio dell’arcivescovo di San Salvador, assassinato nel marzo del 1980 mentre celebrava la messa.
“PARERI UNANIMI DEI TEOLOGI E DEI CARDINALI”
Il postulatore della causa, mons. Vincenzo Paglia, si è detto “commosso” in una breve intervista concessa a Radio Vaticana: “Dopo tanti anni, finalmente, giunge la conclusione di questo lungo processo, di questa lunga causa, e la gioia è doppia. Non solo perché i pareri sono stati unanimi, sia da parte dei teologi che dei cardinali, ma anche perché c’è un quid provvidenziale nel fatto che Romero venga dichiarato Beato dal primo Papa sudamericano della storia”. Stamattina, prendendo la parola nella Sala stampa della Santa Sede, Paglia ha detto che “la gratitudine va anche a Benedetto XVI che ha seguito la causa fin dall’inizio e che il 20 dicembre del 2012 – poco più di un mese dalla sua rinuncia – ne ha deciso lo sblocco perché proseguisse il suo itinerario ordinario”.
GLI OSTACOLI NELLA CURIA ROMANA
Ricorda Gianni Valente su Vatican Insider che il gesto di Francesco “fa contrasto con le lentezze, i sabotaggi e i mezzi insabbiamenti che hanno accompagnato la causa di beatificazione di colui che da tempo i cattolici latinoamericani invocano come ‘San Romero de America’”. Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, osserva Valente, “a Roma operava una influente fazione di alti prelati che ispiravano sotterranee resistenze alla canonizzazione di Romero. Un episodio rivelatore – aggiunge – capitò al cardinale Francesco Saverio Nguyen Van Thuan: proprio nel 2000, predicando gli esercizi spirituali al Papa e alla Curia romana”, “aveva ricordato anche Romero tra i grandi testimoni della fede del nostro tempo. E per questo, alla fine della meditazione era stato aspramente rimproverato da alcuni porporati latinoamericani, che lo accusavano di aver esaltato davanti al Papa una figura che ai loro occhi appariva come controversa e ‘sovversiva’. Quando, qualche mese dopo, venne pubblicato il libro di quelle meditazioni quaresimali, il nome di monsignor Romero non compariva, neanche in citazioni fugaci, in nessun capitolo”.
IL RUOLO FONDAMENTALE DEL GESUITA RUTILIO GRANDE
“La vita di Romero fu complessa, dividendosi in due parti. Prima, quella di sacerdote e vescovo poco incline alle lotte verso il suo popolo. Poi, quella da lui stesso definita una conversione, con la nomina a primate della Chiesa cattolica del Salvador, e con l’uccisione del gesuita Rutilio Grande ad opera di sicari per il suo impegno verso gli ultimi. Fu la veglia a al confratello sacerdote, nel marzo del 1977, a cambiargli la vita”, scrive su Repubblica Marco Ansaldo.
“NON ERA MARXISTA, MA VICINO A PAOLO VI”
Monsignor Paglia aveva chiarito ad Avvenire come il pensiero teologico di Romero fosse “uguale a quello di Paolo VI definito nell’esortazione Evangelii Nuntiandi, come rispose egli stesso nel 1978 a chi gli chiedeva se appoggiasse la Teologia della liberazione. E che, in sostanza, in un contesto storico caratterizzato da estrema polarizzazione e da cruenta lotta politica, si scambiò per connivenza con l’ideologia marxista la difesa concreta dei poveri, che Romero sosteneva non per vicinanza alle idee socialiste ma per fedeltà alla Tradizione”.
I RAPPORTI NON IDILLIACI CON GIOVANNI PAOLO II
Andrea Riccardi, sul Corriere della Sera, fa luce sui rapporti che intercorrevano tra il vescovo salvadoregno e Giovanni Paolo II: “Nel 1983 il Papa volle andare sulla sua tomba e disse ‘Romero è nostro’. I rapporti tra i due non erano stati idilliaci: Wojtyla, però, s’inchinò di fronte al martire. Romero, definito ‘indimenticabile’ dal Papa, fu inserito da lui tra i caduti del Novecento, dopo esserne stato escluso”. A giudizio dello storico italiano, “Romero non era un teologo della liberazione”. Lui, aggiunge Riccardi, “non accettava che i salvadoregni fossero massacrati nella sanguinosa polarizzazione tra guerriglia e destra, e che fossero condannati alla miseria da un’oligarchia retriva”.