Lotta al terrorismo di matrice jihadista per sedare l’instabilità che ormai da tempo avvolge l’intera area MENA (Middle East and North Africa).
Ecco le priorità per l’Occidente, l’Europa e l’Italia secondo Enzo Amendola, responsabile Esteri del Pd e capogruppo in commissione Esteri alla Camera. A partire dalla Libia.
Iniziamo dalla strage di Charlie Hebdo, qual è la lezione per l’Europa?
Quanto accaduto a Parigi e le successive operazioni anti-terrorismo in giro per l’Europa rappresentano il frutto di una fase storica in cui è avvenuta una vera e propria chiamata alle armi. Il disordine mediorientale ha partorito nuovi mostri: il califfato, la ripresa delle operazioni di Al Qaeda in un nuovo modello organizzativo e l’entrata in concorrenza tra differenti gruppi terroristici. Tale chiamata alle armi ha purtroppo causato una ripresa dell’attivismo criminale da parte di cellule dormienti e lupi solitari.
In termini di politica estera, non posso fare a meno di rimarcare un ritardo da parte dell’Europa nel comprendere che il disordine sviluppatosi negli ultimi tre anni dalla Libia all’Iraq potesse generare dei mostri in grado di arrivare sino a casa nostra.
Che tipo di evoluzione è in corso nelle dinamiche del terrore di matrice Jihadista?
Credo che il disordine derivato dallo sgretolamento degli ordinamenti statuali in gran parte del Nord Africa abbia determinato una nuova guerra in cui la religione è una bandiera utilizzata per operazioni di egemonia politica. Non a caso uno dei primi obiettivi dell’ISIS è stato quello della delimitazione dei confini esistenti nel Medio Oriente. Non credo esista una “internazionale del jihadismo” o un coordinamento di operazioni tra i vari gruppi terroristici; ritengo, piuttosto, vi sia un comune sentimento di rifiuto del concetto di Stato propriamente occidentale e una chiamata alle armi per sovvertire l’ordine costituito. In tal senso, la bandiera nera del califfato diventa il vessillo sotto cui eseguire tale operazione egemonica.
L’attuale fase della lotta al terrorismo affronta, quindi, difficoltà maggiori rispetto al momento storico della nascita di Al Qaeda, poiché siamo difronte a un terrorismo con ambizioni di egemonia politica, ormai in grado di eseguire operazioni di guerra simmetrica che si affiancano agli attacchi di tipo non convenzionale.
Esiste una guerra interna all’Islam? Che valore sta assumendo la spaccatura sempre più netta tra sciiti e sunniti?
Tale scissione ha una connotazione storica e affonda le proprie radici in una concezione politico-statuale dell’Islam, già forte nella rivoluzione iraniana del ’79: una rivoluzione dell’Islam politico, così come inteso da Khomeyni, che in quell’anno chiamò alla rivoluzione tutti, sciiti e sunniti. Evidentemente negli ultimi decenni si è costituita una divisione alimentata da dinamiche di carattere egemonico negli equilibri regionali. Tale frizione tra opposti epigoni ha trovato terreno di scontro nei Paesi dell’area e in particolare in Syria, Yemen, Bahrein e nello stesso Iraq. Da notare, poi, come all’interno dello stesso mondo sunnita vi siano laceranti suddivisioni e spaccature. Tali tensioni hanno condizionato e tuttora influenzano l’instabilità politica, economica, culturale dell’intera regione.
Una nota positiva è certamente scaturita dal graduale riavvicinamento dei Paesi che si oppongono all’ISIS e che hanno trovato un primo momento d’incontro nel vertice di Gedda dello scorso agosto. Ritengo, infatti, essenziale un impegno forte e un protagonismo dei Paesi della regione, supportati dall’occidente.
Quale sarà il ruolo dell’Occidente e degli Usa negli equilibri regionali? Sono possibili nuove alleanze?
Il momento di svolta è certamente rappresentato dall’apertura dei negoziati sul nucleare iraniano. La scelta di chiudere con la teoria neocon dell’asse del male ha portato gli Stati Uniti e i loro alleati a rivedere la propria posizione verso l’Iran, in modo da attribuire a questo Paese non solo un ruolo di contenimento ma di possibile interlocutore nella lotta all’instabilità.
Il presidente Obama più volte ha difeso tale linea, sino a ipotizzare il ricorso al veto al Congresso nel caso di possibili nuove sanzioni. Si tratta di una scelta molto coraggiosa e discussa, che sicuramente ha determinato prese di posizione nette da parte degli alleati storici all’interno della regione e in primis dell’Arabia Saudita. L’eventuale riuscita del negoziato rappresenterebbe una svolta ma dovrebbe comunque accompagnarsi a una forte politica di cooperazione e supporto occidentale nella risoluzione dei conflitti generati da questo importante cambiamento di rotta.
Che cosa lascerà l’esperienza dell’amministrazione Obama in politica estera?
La politica del presidente Obama è stata incentrata sin dall’inizio su una revisione della strategia di deterrenza propria dell’amministrazione Bush. Esiste una linea di congiunzione che lega il famoso discorso del Cairo con le aperture formali e personali verso l’Iran. Ciò ha provocato discussioni e critiche da parte di chi considera la posizione di Obama come una sorta di ritirata rispetto al ruolo strategico proprio degli Stati Uniti. Al contrario, credo che la politica estera di quest’amministrazione trovi fondamento nella volontà di convergenza con le potenze regionali e gli attori locali per la risoluzione dei problemi causati dall’instabilità. Questa è una scelta che ritengo certamente non basata sulla timidezza o sul disimpegno ma su un nuovo ruolo che si vuole dare agli USA: in un multilateralismo asimmetrico in cui vi è pure il pivot to Asia da considerare, Obama ha deciso di accantonare l’interventismo militare e di puntare su una strategia di supporto esterno.
Quali sono i maggiori pericoli legati al terrorismo per l’Italia? La Libia sarà la prossima fucina del terrore?
E’ necessario partire da parole di verità e chiarezza, come rimarcato dal Ministro Gentiloni: la gestione post-Gheddafi da parte delle forze intervenute a sostegno dei cosiddetti liberatori della Libia è stata assolutamente fallimentare. La Libia è stata consegnata al caos, nella fallace convinzione che un Paese che mai aveva vissuto istituzioni democratiche potesse stabilizzarsi da un giorno all’altro. La Libia è la priorità numero uno per l’Italia, non solo per questioni geopolitiche, legate al fenomeno immigrazione, o per interessi di natura economico/commerciale: il rischio da evitare è quello di un possibile contagio delle aree limitrofe coinvolte nella cosiddetta primavera araba. E’ necessario evitare la frantumazione della Libia, già in corso, sia attraverso il supporto nei forum istituzionali di dibattito e confronto che con altri strumenti, qualora necessario.
Esiste un pericolo attuale e concreto che possa interessare il nostro Paese?
Ritengo che in questo mondo e in questo Mediterraneo infuocati dal caos e dalla chiamata alle armi da parte del terrore, sarebbe da folli pensare di essere completamente immuni. Il pericolo potrebbe provenire da più fronti: sia da cellule di terrorismo molecolare che si auto-attivano, sia da parte dei nuovi network che utilizzano il web a scopi di proselitismo. Il momento storico attuale è purtroppo denso di tensioni e di minacce all’assetto valoriale e politico occidentale e difronte a un quadro così fragile, è nostro compito prevenire ed eliminare possibili pericoli, senza incorrere in paranoie e nel rispetto del nostro sistema costituzionale. Sotto il profilo dei foreign fighters è necessario non solo colpire duramente reclutatori e canali di finanziamento ma anche intervenire qualora si venga a conoscenza di possibili reclutati, pronti a partire verso le zone del terrore e i campi di addestramento.
Spetta all’intelligence scoprire e illuminare eventuali tentativi di proselitismo fondamentalista, tenendo in considerazione le tante varianti che possono giustificare scelte estreme, attraverso un coordinamento a livello europeo che dovrebbe aspirare ad essere quanto più stabile possibile.
Dovremmo rafforzare mezzi e risorse della nostra intelligence?
L’intelligence italiana ha dimostrato di essere altamente professionale in un momento assai complicato, raggiungendo obiettivi concreti in difesa dell’interesse nazionale, dalla Libia alla Syria. Come testimoniato negli atti parlamentari, possiamo dire di avere un’intelligence altamente qualificata e in grado di rispondere alle minacce attuali e future. Chiaramente, il lavoro dell’intelligence italiana deve trovare supporto nel consenso e nella coesione da parte delle forze politiche e la comprensione concreta di come i fenomeni terroristici possano essere combattuti sul campo.
Come funziona la diplomazia parlamentare?
La diplomazia parlamentare si fonda sul confronto e sull’interrelazione tra forze politiche di diversi Paesi con il fine di perseguire l’interesse nazionale. Un’attività di questo tipo agevola notevolmente il raggiungimento di posizioni condivise e permette di rafforzare la diplomazia statuale. Ricordo che noi parlamentari, negli ultimi due anni, abbiamo compiuto missioni importanti nell’area MENA, raggiungendo significativi risultati.
La nostra delegazione è stata la prima in assoluto ad incontrare il Generale al-Sisi dopo la sua nomina a presidente e il confronto è stato utile per le posizioni poi assunte dall’Egitto a livello regionale; lo stesso abbiamo fatto in Iran e a Gaza, così come in Tunisia siamo stati la prima delegazione ad incontrare il neo presidente eletto.
La diplomazia parlamentare, unendo gli schieramenti politici di diversa espressione, ha la forza e la capacità di muoversi con maggiore flessibilità della politica estera ben rappresentata dal nostro Governo ed io credo che sia un valore importante perché accorcia le distanze ed apre significativi terreni di discussione.