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Che strada seguirà Area Popolare?

All’indomani del drammatico naufragio del Nazareno, gongola Angelino Alfano: “Noi ci siamo, con i nostri voti c’è la maggioranza in Parlamento e siamo decisivi”.

Guardando brutalmente ai numeri, ha ragione: persa la seconda stampella di Forza Italia per le riforme, al Senato il governo si regge su una maggioranza risicata. Sette Senatori.

Facili, i conti: necessari 161 senatori per la maggioranza, ai 107 democratici (non si consideri per convenzione il Presidente Grasso, che non vota) si aggiungano 7 montiani, 17 voti dal gruppo Per le autonomie e i ben 36 senatori di Area Popolare, il gruppo parlamentare in cui sono confluite NCD e UDC, nell’efficace progetto di formare la seconda gamba, istituzionale, dell’esecutivo.

Non è un caso che boatos da Palazzo Madama raccontino, con insistenza, di una ricerca avviata dai fedelissimi di Matteo Renzi tra senatori sparsi tra misto, ex M5S e GAL, Grandi Autonomie e Libertà, per rafforzare una maggioranza fragile e ondivaga, apparentemente priva da qui in avanti dell’efficiente soccorso azzurro offerto per le riforme negli ultimi mesi.

Ma se i numeri offrono ad Alfano un ruolo decisivo, la scarsa forza elettorale di NCD rende vuota ogni qualsiasi minaccia di caduta dell’esecutivo e, come conseguenza, il ruolo del partito soggiogato e facilmente controllabile.

Come ampiamente dimostrato dalla recente elezione per il Quirinale.

Del resto, quale forza elettorale può esprimere un partito del quale i valori fondanti, richiamati nel suo stesso nome, sono perennemente domati dal vivere come perenne stampella di un esecutivo, espressione di un’altra area politica?

L’impressione è che, sganciandosi dai diktat di Silvio Berlusconi e trovata così la forza di abbandonare una concezione leaderistica che ha governato il centro destra negli ultimi vent’anni, NCD sia ora totalmente dimesso, dall’emergente, forte, nuova leadership di Matteo Renzi.

Rimbombano così i malumori dentro il partito: l’ex portavoce Barbara Saltamartini, attratta da sirene leghiste di opposizione, l’ha appena abbandonato; il capogruppo Maurizio Sacconi al Senato si è dimesso e la collega Nunzia De Girolamo alla Camera è più che tentata dall’imitarlo; il Ministro Maurizio Lupi è sempre più insofferente al suo stesso governo e, si sussurra nei palazzi, alla leadership di Alfano.

Tra i bene informati, dichiarano poi che siano ben venti i senatori in bilico pronti a non seguire fedelmente le indicazioni del gruppo, rendendo il prossimo cammino del governo sulla via delle riforme un vero e proprio campo minato.

E, tra poco, ci sono le elezioni regionali.

La strategia delle alleanze, a due mesi dalla presentazione delle candidature, appare tutta per aria, pur essendo evidentemente decisiva per indicare l’orientamento futuro del partito.

Il PD, fortissimo nei numeri, non sembra davvero interessato a un’alleanza sistematica nelle sette regioni prossime al voto; dentro Forza Italia sono in molti a chiedersi quale vantaggio porterebbe legarsi a un partito al quale si oppongono a Roma, per di più con relativa e ridotta forza elettorale a livello locale. Specie se la fortissima Lega di Matteo Salvini ponesse il veto. Come sembra, per fare un esempio, in Liguria.

Il rischio, per NCD e area popolare tutta, è dover vivere di vita propria, rimanendo stritolati tra due forze e morire elettoralmente. Limitando così, ulteriormente, l’influenza sull’esecutivo a Roma.

Appare, quindi, evidente un paradosso: la permanenza nell’esecutivo, ragione stessa della vita parlamentare e della pur limitata influenza politica di NCD, può rappresentare inevitabilmente la sua morte, elettorale quanto partitica.

Come sbrogliare la complicata matassa è l’arduo compito della dirigenza.

Il tempo, inevitabilmente, stringe.


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