Tra i 400 e i 500 milioni di euro al mese. A tanto ammonta il costo della crisi libica per l’Italia, tra appalti e commesse già nell’orbita di Roma, ma che hanno dovuto subire un brusco stop. Oggi, in una conversazione con Formiche.net, è l’architetto Gianfranco Damiano, presidente della Camera di Commercio italo libica, a riflettere su quanto accade sulle vicine coste nordafricane. Punto di partenza i numeri: l’Italia è il primo partner commerciale della Libia, anche in virtù della viva presenza dell’Eni, con circa 10,6 miliardi di euro d’interscambio, un dato che rispetto al 2008 è oggi in calo del 50%. Nonostante il caos del post-Gheddafi siamo ancora i maggiori destinatari delle esportazioni libiche relative a patrolio e gas: lo dimostrano le rilevazioni del primo semestre 2014 con l’export dell’Italia verso la Libia che ammonta a 1,732 miliardi (-15,4%) e l’import a 3,054 miliardi (-58,6%).
LIBIA STRATEGICA
“Per noi la Libia è troppo importante, non possiamo lasciar perdere” osserva. Alcune aziende turche si stanno iniziando ad affacciare su quello scenario, “e noi non possiamo permetterci di lasciare il passo ad altri”. Damiano conferma che se la bufera nel Paese dovesse passare, rientrerebbero senza dubbio tutte le aziende italiane, oltre ad altri soggetti, e “non vi sarebbero particolari controindicazioni, anche perché le imprese lì hanno commesse e di lavoro da fare ce n’è tanto”. Per cui l’intenzione, appena possibile, è quella di farvi ritorno. Dal punto di vista del calo del fatturato “non nascondiamo che siamo preoccupati, lo eravamo già stati in occasione della crisi politica, ma questa volta i riverberi potrebbero essere ancora più gravi per via di prospettive imprenditoriali che già c’erano per noi relativamente ad alcune infrastrutture”. Tutto quindi verrà rallentato, comprese le decisioni su possibili future acquisizioni.
IL RUOLO DI PRODI
E’ auspicabile dipanare la matassa libica aspettando l’Onu o puntando su un negoziatore esperto, dopo i risultati poco confortanti del lavoro svolto dall’inviato speciale Bernardino Leon? Secondo Damiano l’importante è evitare un intervento armato, perché “sarebbe l’errore maggiore”. “Rischierebbe di far diventare la Libia un’altra Somalia, con tutti gli effetti collaterali del caso”. La Libia si trova “a un passo dal nostro Paese”. E un intero universo imprenditoriale è in attesa che “la politica italiana si decida a spingere l’ex presidente della Commissione Europea Romano Prodi come partner di Leon, che fino ad oggi non ha raggiunto alcun risultato”.
VOLUTO DALLA LIBIA
Perché Prodi? In primo luogo, secondo Damiano, “perché è il nome che tempo fa avevano chiesto gli stessi libici, per via della sua conoscenza approfondita del dossier politico-economico-energetico del Paese, dove coltiva relazioni decennali. La politica italiana ha tentato “di metterlo in disparte a causa di beghe interne e non lo ha sponsorizzato per via di eventuali ombre su qualcuno: questo è un dato di fatto reale”. Per queste ragioni è sbagliato fare riferimento a operazioni di “peace keeping o peace enforcing, ma serve andare su altri tavoli”.
RACCORDO
Bisognerà fare un lavoro sul territorio dove, ragiona Damiano, occorre “una figura libica di una certa caratura, come alcune personalità legate a famiglie storiche del Paese contrarie al regime penso all’80enne Senussi, che faccia da raccordo con chi guiderà l’operazione e soprattutto sia l’emblema della pacificazione”. Sarebbe un buon inizio di dialogo, “ma guardando un momento all’esterno non conterei troppo sull’aiuto del presidente egiziano Al-Sisi”. La parte islamista di Tripoli infatti non accetterebbe di buon grado una mano del Cairo, percepito come ostile per aver preso le parti del governo laico di Tobruk e del generale Haftar”. Un altro problema, per Damiano, “è in Italia”.
STASI POLITICA
Come “evidente da alcuni mesi”, c’è un nodo da sciogliere a Roma, dove “la politica dovrebbe farsi più attiva sul caso libico”. Più in generale, secondo Damiano, serve smetterla di cincischiare sulla politica estera: “Renzi oggi, ma anche Letta ieri, non hanno voluto capire a fondo la questione libica, che per noi è strategica dal punto di vista petrolifero, imprenditoriale e anche migratorio”. Sono fermi milioni e milioni di euro di commesse, ci sono lavori da portare a termine e da avviare, oltre a “relazioni peculiari. Le nostre aziende sono affidabili ed efficaci”. Lo scorso febbraio, la conferenza sulla Libia è stata messa un po’ in ombra dalla crisi ucraina, ma in quell’occasione anche il presidente americano Barack Obama aveva più volte invitato il nostro Paese a farsi parte attiva verso Tripoli. “E invece – ricorda – a settembre è stata la Spagna ad aprire un tavolo sulla Libia, guadagnando la posizione di Bernardino Leon come inviato ad hoc. Quest’ultimo, pur molto volenteroso, non ha prodotto risultati perché Madrid non può vantare con Tripoli quelle relazioni che invece esponenti italiani avrebbero potuto mettere in campo”.
LATITANTE
Dopo la conferenza l’Italia è stata “latitante ad arte”, limitandosi a parlare del solo versante dell’immigrazione. “Purtroppo è andata così”, dice Damiano. Il tutto rientra “nell’atavica incapacità” della nostra politica di “concentrarsi sui tavoli tematici”, come quando Obama disse che il dossier libico era di pertinenza esclusiva dell’Italia. “E noi siamo solo riusciti a tenere aperta la nostra ambasciata”. Ma poi? Il fatto in sé di aver riconosciuto il governo di Tobruk mentre “la nostra ambasciata che era da tutt’altra parte, a Tripoli, non è stata mai toccata, vuol dire che l’Italia aveva saldi rapporti con entrambe le parti”. E oggi che Libia c’è? “Senza benzina, con banche chiuse, bancomat muti e negozi senza prodotti”.
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