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Perché l’Italia non può ignorare la Libia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

La quasi conquista della Libia da parte delle milizie jihadiste non è poi una totale novità. La penetrazione è stata attenta e lunga, soprattutto tramite i Fratelli Musulmani, che oggi rigettano, per mezzo del loro partito (il maggiore tra quelli islamisti libici, il Partito della “Giustizia e della Ricostruzione”), ogni “ingerenza esterna”. Ciò implica la progressiva caduta dei residui bastioni di contatto con l’Occidente.
I Fratelli dell’Ikhwan, non sappiamo quanto coscientemente, fanno la figura dei “compagni di strada” del jihad, forse in ottemperanza agli interessi di alcuni Emirati della penisola arabica.

Se gli emirati giocano la loro carta contro Riyadh, che oggi ha altri interessi, non dobbiamo fargliela giocare. Se i sauditi operano per riprendersi una egemonia mediterranea, in funzione del loro mercato del greggio e della loro autonomia strategica, non dobbiamo chiederne conto. Tutti amici, diceva il cieco. Ma c’è qualcuno a Bergen-Mons che osa dire qualcosa ad un Paese membro della Nato, la Turchia, che sostiene una serie di attività contro altri Paesi dell’Alleanza?

Oppure la Nato è di fatto morta? E cosa troverà la Turchia, sempre Paese Nato, nella egemonia marcata Ankara sul Mediterraneo, se non la sua morte come Paese ponte tra Occidente e Oriente?
Vogliono, Erdogan e il suo ex-ministro degli Esteri ora premier Davutoglu, arrivare ad una egemonia pseudo e neo ottomana sul mondo islamico del Grande Medio Oriente?
Oppure sognano la Panturania fino ai confini della Cina, per unificare tutte le etnie turkmene in un solo comando, quello della Sublime Porta.

Certo, il vuoto di potere nel Grande Medio Oriente è evidente, ma pensare di correre da soli, in Turchia, è davvero improprio. E’ anche vero che nessuno dei grandi player strategici globali è interessato, o sa farlo, a gestire le crisi mediorientali. Gli Usa sono persi nei fracking e cracking dei vecchi pozzi di petrolio texani e dell’Illinois, che coprirà il mercato statunitense, ma non credo che potrà allargarsi fuori, verso l’Ue.
L’Arabia Saudita, abbassando i prezzi al barile Opec, ha messo in crisi sia Washington sia l’Iran, il cui utile al barile, a questi prezzi, è quasi negativo. Siamo ad una lotta tra sciiti e sunniti che si muove nel Mediterraneo.

Con chi vogliamo stare? Con l’Iran che, proprio mentre scriviamo, mostra di avere un secondo programma nucleare segreto, a Lavizan-3? Oppure ridiventiamo adulti e creiamo il nostro Mediterraneo, senza ricatti e nemici per la vita? E’ la nostra vita e la nostra sopravvivenza, non dimentichiamolo. V’immaginate un’economia come quella italiana sotto scacco a causa di un Islam radicale che controlla il Mediterraneo?
E’ vero che gli Usa sono più ricchi, perché il refracking dei vecchi pozzi americani costa 2 milioni di dollari, mentre lo scavo di nuovi pozzi costa ben 8 milioni.

Il break even point calcolato da Halliburton è 50 dollari a barile, ma la quota dei costi aggiuntivi del fracking-cracking potrebbe salire, tutti i vecchi pozzi sono ormai esausti.
E questa nuova redistribuzione dei potenziali energetici riguarda la Libia, centro del Mediterraneo e produttore del miglior greggio africano.
E’ finito, come notava una recente relazione dell’Icsa, il collante che aveva creato la Libia tra i vilayet dell’Impero Ottomano: la tradizione esoterica locale dell’Islam, la senussyia, quella che univa, tra le locali classi dirigenti, il Fezzan, la Tripolitania e  la Cirenaica.

Oggi abbiamo a che fare con una ideologia mac-world di tipo jihadista, che fonde la  globalizzazione ingenua dell’Islam con la violenza più efferata. Siamo ormai al videogioco, reso reale, dell’islamismo contemporaneo.
Se li vedessero, questi poveri barbari, dal paradiso dei filosofi il neoplatonico Al-Kindi, o Avicenna, l’afghano, o Averroè, il padre fondatore del pensiero laico in Europa, chissà che tristi risate si farebbero.
Sono proprio quelle tre aree, Fezzan, Cirenaica, Tripolitania, che Italo Balbo unisce d’imperio in un progetto che è di colonia fascista di ripopolazione agricola, come nella tradizione, peraltro, del vecchio stato liberale italiano, e poi di panarabismo gestito dall’Italia fascista. Il progetto di una Italia che si batte a favore degli arabi contro inglesi, francesi e, naturalmente, nazisti.

E poi ci si meraviglia che l’abbiano ucciso in volo, insieme a Nello Quilici, mentre ritornava sulla costa della Libia.
Un momento ancora: le concessioni Eni erano state allungate, da Muammar Gheddafi, di 25 anni, in cambio di una serie di investimenti per 28 miliardi sul territorio nordafricano. Oggi, grazie all’azione congiunta franco-britannica, scoccata alla notizia di una sollevazione tra 16 e 17 febbraio 2011 per i “diritti umani” che i nostri Servizi notarono come anomala, abbiamo la definitiva, è bene dirlo, destrutturazione della Libia.
Ovvero, siamo alla destrutturazione potenziale di tutto il Magreb. E quindi di tutto il Mediterraneo, che il jihad separa secondo i suoi fini bellici e strategici. Che non saranno mai i nostri.

L’Italia, centro del Mediterraneo, ha sognato finora di essere una potenza europea. Non era vero. Il provincialismo della nostra classe politica l’ha bloccata allo stadio di potenza terrestre, come se fossimo la Baviera.
Oggi si sveglia dal sogno e si trova ad essere la primaria potenza dell’Ue nel Mediterraneo, l’unica che sia totalmente inserita nel Mare Nostrum. E allora, dobbiamo riscoprire gli interessi nazionali, gli unici che contino davvero.
Cosa ci interessa, quindi? La difesa del Mediterraneo. Totale. Dobbiamo farcela da noi, poche storie.
La Francia ha il suo Atlantico, che serve ancora la teorica della difesa atomica “tous azimuts”, la Gran Bretagna è ormai una potenza atlantica non-europea, la Spagna pensa alle sue enclave di Ceuta e Millilla, e al suo Atlantico che la collega ai “fratelli” ispanici del Nuovo Mondo, i Balcani non ci sono proprio. Le cose le dovremo fare da soli. E bene.

La Total francese ha chiuso il campo di Mabruk, mentre gli scontri militari hanno danneggiato, al porto di Sidra, la Conoco-Phillips, la Marathon Oil e la Hess. Qui si tratta della nostra sopravvivenza, del nostro riscatto dopo quattro anni di crisi, della nostra sopravvivenza, non di chiacchiere sulle operazioni “multilaterali”. E se la crisi libica fosse stata volontariamente aggravata per costringere l’Eni a farsi comprare dalla Total? Tutto è possibile, con certi politicanti al potere.
In primo luogo, per l’azione militare, occorre una copertura dura, attenta e solerte dello spazio marittimo ex-libico: anche dentro le cosiddette acque territoriali, e chi dice qualcosa va zittito al suono dei nostri ottimi Oto Melara. Struttura militare, naturalmente, con delle regole d’ingaggio che ricordino la guerra, non la cerimonia giapponese del tè.

Poi, un’operazione sulle coste, di specifico carattere d’intelligence, che controlli le aree e crei nuclei di difesa delle nostre linee petrolifere, che oggi sono protette da contractor. Sarebbe bene che Matteo Renzi, e il suo ex ministro degli Esteri, la simpatica e bella dilettante Federica Mogherini, studiassero meglio queste questioni con i tecnici militari, invece di sparare ogni due giorni una soluzione diversa che, peraltro, è sempre sbagliata. Per non parlare di Paolo Gentiloni, che ci fa rimpiangere, da cattolici democratici, il suo antenato del “Patto elettorale” del 1913. Gli americani, poi, non servono più.
Ma  ora siamo a discutere di questioni meno estetiche ma più etiche e economiche: l’Italia deve subito  proteggere i terminal di Mellitah; e oggi è l’unica nazione che riceve, poco peraltro, il petrolio e il gas libico.

Lo dobbiamo, quel poco, all’intelligenza e all’esperienza di intelligence dei dirigenti locali dell’Eni. Con Greenstream, l’Italia riceve l’8% del suo fabbisogno di gas e importa circa 200mila barili di petrolio al giorno.
Se continua così, la nostra breve e stanca ripresa economica morirà nella culla, per la gioia dei nostri alleati militari che sono, peraltro, concorrenti economici ferocissimi.
E non hanno, caro Matteo Renzi, nessuna intenzione di mollare l’osso geoeconomico a noi. Il deficit petrolifero rispetto ai ritmi dei tempi di Gheddafi è colossale, ma cosa succederà quando il deficit non sarà più controllabile nel medio termine? E dobbiamo anche metterlo in correlazione con il deficit economico e di petrolio e gas riferibile alle sanzioni contro la Federazione Russa, altra chiacchiera della setta dei “diritti umani”. Se questo non accade, addio “ripresa economica”, che pagheremo ai prezzi e ai ritmi energetici dei nostri concorrenti, che ci lasceranno le briciole.

Saremmo stati quindi colpiti e affondati, come Italia, dalla coalizione dei moralisti troppo ingenui o troppo furbi che volevano portare la “democrazia” in Libia per fregarci il ruolo egemonico che, malgrado tutto, eravamo riusciti a costruire, dai tempi di Enrico Mattei a quelli di Paolo Scaroni e oggi di Claudio Descalzi, tra Algeria, Tunisia, Libia perfino Egitto.
Oggi è il tempo di riportare una stabilità in Libia che sia coordinabile con gli interessi italiani.
Più si aspetta più pagheremo cara l’attesa delle decisioni. Più aspettiamo, più difficile e sanguinoso sarà il sempre meno probabile successo strategico.

Quindi, per continuare con le nostre ipotesi: utilizzare appieno il sostegno di Israele, che oggi, con sagace mossa di Netanyahu, dà una grande mano all’Egitto ristabilizzato di Al-Sisi.
Non si creda che basti la peraltro ottima azione del leader egiziano: quando sarà, al momento della vittoria in Libia, state sicuri che arriverà una feroce recrudescenza del jihad nel Sinai, correlato con quello libico. La guerra sarà sui due fronti e il disastro assicurato.
E allora dovremo pensare ad aiuti al Cairo, seri, di buona tecnologia militare, di parti di ricambio, di materiale, di denaro.
L’altra pedina, insieme ad un’azione italiana dal mare che mi sembra irrinunciabile per mantenere almeno le nostre posizioni, è quella dell’Algeria.

Ha 900 chilometri di confine con l’ormai ex-Libia, e sta rinsaldando le sue postazioni nell’area. Siamo fiduciosi che il governo di Algeri, che pure ha problemi di jihadisti locali, saprà fare bene. Ma va aiutato e sostenuto, non solo con i proclami.
La Tunisia sa bene che alcuni gruppi del jihad locale sono attivi in Libia fin dall’anno scorso.
E che l’economia illegale che fonda il jihad libico è avversa agli interessi delle popolazioni tunisine di confine. Anche qui, aiuti economici e militari, tecnologie, mezzi, uomini per addestrare i militari tunisini.
Manca però  la chiusura da Sud, perché il Chad e il Mali non sono molto interessati al contro jihad, e Al Qaeda nel Maghreb Islamico controlla ormai i confini, e si è presa molte delle armi dei depositi di Gheddafi, dopo la “rivolta” del 2011.

C’è il modo di mettere in piedi un controllo remoto, soprattutto dal Senegal e dalla linea dei migranti che va dalle coste atlantiche dell’Africa fino a Tamanrasset e a Subha, in territorio già libico.
Occorre, e qui la Nato potrebbe risvegliarsi dal suo sonno dogmatico, una copertura aerea, e sarebbe utile programmare una pressione dall’aria verso le linee jihadiste, per disperderle prima che arrivino alle città e ai villaggi.
Poi, naturalmente, occorrerà pensare ad un aiuto concreto al generale Khalifa Haftar, oggi sostenuto da Egitto e Arabia Saudita, il quale non è affatto marginale nella scacchiera post-libica.
Ecco, la guerra è il fondamento della pace, e la pace è il fondamento della guerra. Se un Paese non sa correre a difendere i suoi interessi nazionali, è morto e sepolto. Speriamo, ma non ne sono molto sicuro, che questo non sia il caso dell’Italia.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”


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