In un contesto normale, ci si potrebbe augurare (ma è possibile sperarlo davvero in questo caso?) che l’inchiesta sull’assassinio di Boris Nemtsov possa essere caratterizzata da vera imparzialità.
Nemtsov era un autentico liberale, era uno dei leader dell’opposizione a Putin, era fortemente contrario alla guerra in Ucraina (e, da quanto si sa, stava lavorando a un report sul coinvolgimento russo in quel conflitto), e aveva di recente dichiarato che temeva che Putin lo volesse morto.
La mia opinione è che si sia purtroppo dinanzi al ripetersi di un “metodo”: nel teatro russo, da anni, l’omicidio politico è una realtà agghiacciante, che si accompagna alla persecuzione legal-giudiziaria degli oppositori, o comunque alla eliminazione fisica delle altre persone sgradite al regime (il caso di Anna Politkovskaya è il più noto, ma non va dimenticato neanche quello di Antonio Russo).
Al di là di chi dovesse risultare colpevole della esecuzione del delitto, cioè di chi ha materialmente compiuto l’omicidio di ieri sera, è evidente che in quel Paese chi si oppone al governo finisce spesso in galera, oppure in (più o meno volontario) esilio, oppure assassinato.