Con la scelta di Sergio Mattarella per la successione a Giorgio Napolitano al Quirinale il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha forse commesso l’errore, provvidenziale però per il Paese, di ignorare o sfidare il vecchio proverbio che ammonisce di non scambiare l’abito per il monaco.
Mattarella sembrava fatto, e scelto, apposta per non offuscare o nuocere allo stile di Renzi, incontenibile anche fisicamente nella sua baldanza. Basta vedere le foto e le riprese televisive del presidente del Consiglio, prima ancora di sentirne la voce generalmente di sfida a chiunque e dovunque, per avvertirne appunto l’incontenibilità. L’opposto del passo, della voce, della postura del presidente della Repubblica, che sembra, a parte i capelli, figlio non di suo padre Bernardo, che ricordo bene nella sua imponenza fisica, ma di Giulio Andreotti. Che s’incurviva ancor più di quanto la natura non volesse di suo, parlava sempre con un filo di voce e non si lasciava mai scappare l’occasione per mormorare battute pungenti.
“Che fai? Mi multi?”, disse una volta Andreotti a un cronista, che pure gli era amico ma lo stava infastidendo, bloc notes alla mano, con domande alle quali lui non voleva rispondere. E alle battute seguivano quasi immancabilmente poche parole mozzate e incomprensibili: postille, chissà, di pensiero critico ma represso. Un’abitudine alla quale Andreotti non si sottraeva neppure negli interventi pubblici: discorsi parlamentari, di partito e persino comizi, framezzati di mormorii che ogni tanto si avvertono anche nelle poche dichiarazioni che i giornalisti riescono a strappare al nuovo presidente della Repubblica.
Sa di andreottiana, casuale e astuta insieme, anche la scelta che Mattarella fa del suo modo di usare i simboli, chiamiamoli così, del potere. Andreotti non prendeva aerei di linea, treni e tram come Mattarella, ma aveva il vezzo di andarsene all’improvviso a piedi per le strade del centro di Roma: per andare da casa a Palazzo Chigi o solo per entrare in una Chiesa, dove Indro Montanelli soleva immaginarlo impegnato a parlare più con il prete che con Dio. Anche Renzi, in verità, va ogni tanto a piedi per le strade di Roma, e della sua Firenze, ma le circostanze lo stanno condannando alla notorietà più per le sue debolezze per gli aerei e gli elicotteri di Stato nei trasferimenti da una città e l’altra, con tanto di macchine al seguito per soccorrerlo e portarlo a destinazione in caso di guasti e altri inconvenienti.
A Renzi non verrebbe neppure in testa l’idea dell’autostop, genialmente ma non capricciosamente attribuita nei suoi spettacoli televisivi e di teatro a Mattarella dal bravissimo Maurizio Crozza, il comico che si è ormai rilevato come il più penetrante cronista e, insieme, psicanalista politico d’Italia.
Ecco, la differenza fra l’autostop, per quanto immaginario, di Mattarella e il non immaginario passaggio di Renzi fra un aereo, un elicottero e una macchina blindata di soccorso, effettivo o virtuale, è qualcosa che può tradursi, se non si è già prodotta, nella popolarità del nuovo presidente della Repubblica e in un certo fastidio nei riguardi del presidente del Consiglio.
Sul piano più strettamente politico, tra il Quirinale e Palazzo Chigi si avvertono già segni di un rapporto problematico. Non a torto Stefano Folli ha avvertito sulla Repubblica, o semplicemente si è augurato, lo zampino del capo dello Stato nella rinuncia di Renzi al ricorso al decreto legge prima per la riforma della Rai e poi per quella della scuola. E non è forse casuale neppure il tempo che Mattarella si è preso, preferendo le sue prime missioni all’estero, per controfirmare e rendere quindi applicabili i decreti legislativi di riforma del mercato del lavoro: quelli contestati dalla minoranza del Pd e dalla presidente della Camera perché non conformi ai pareri, per quanto non vincolanti, delle competenti commissioni parlamentari.
Casuali, forse, non sono neppure le insolite carinerie di Beppe Grillo per il presidente della Repubblica, dopo l’incomunicabilità e anche l’insolenza con Giorgio Napolitano. Adesso mancano solo le carinerie di Matteo Salvini, che forse si è già pentito dello sgarbo compiuto non accompagnando i suoi capigruppo parlamentari nella recente udienza al Quirinale.