Sventolio di bandiere. Musica. Applausi. Ecco Matteo Salvini. Il quale tanto per cominciare, e usando quello che lui stesso chiama impropriamente “il linguaggio del corpo”, si presenta con indosso una felpa su cui è stampata la scritta “Io sto con Stacchio” (il benzinaio recentemente arrestato per aver sparato a un rapinatore). E, coerentemente, propone l’abolizione del reato di eccesso di legittima difesa.
Un passaggio estremo, questo, nel discorso salviniano, ma esemplificativo di una sintonia con certi temi dell’anarchia conservatrice alla texana e che ci fa capire meglio il senso dell’intervento affidato al padre separato. Sì ai diritti dell’individuo, no allo Stato prevaricatore dell’ordine naturale delle cose. In termini di pensiero politico, più che a Miglio e al suo federalismo qui siamo vicini a un Thoreau riletto percorrendo la Pedemontana.
Ma torniamo a Salvini. Che per disegnare la nuova Lega si fa furbescamente promotore di cultura. Ci sono tre libri che vorrei si leggessero a scuola, esordisce infatti il Matteo milanese. Il primo è La masseria delle allodole, di Antonia Arslan. Un romanzo dedicato, come è noto, al genocidio degli Armeni, di cui ricorre quest’anno il centenario. Un libro la cui lettura potrebbe essere raccomandata da ogni persona dotata di sentimenti umani verso i propri simili. Ma Salvini non lo cita solo per schierarsi tra i buoni, o per scrollarsi di dosso l’accusa di simpatizzare eventualmente con gli eredi di chi fu autore di altri genocidi. Salvini usa il romanzo di Arslan per attaccare la Turchia di oggi che, effettivamente, non ha ancora voluto riconoscere le gravissime responsabilità storiche dei Turchi nello sterminio perpetrato contro gli Armeni nel 1915. E, soprattutto, lo usa per scagliarsi contro chi si è battuto per far entrare la Turchia nell’Unione europea. E qui si torna a bomba. In un colpo solo, Salvini ha trovato modo di alludere a un nesso fra Bruxelles e la penetrazione dei mussulmani in Europa. Evviva.
Secondo libro: Il racconto del Vajont, il noto testo teatrale di Marco Paolini sul disastro che, nel 1963, provocò centinaia di morti in provincia di Belluno. Ora Paolini è un’icona del progressismo italiano, anche per la sua dura denuncia del comportamento predatorio e irresponsabile dell’Edison che fu all’origine della tragedia. Ma Salvini cerca di appropriarsene, considerando quella del Vajont come una storia che mostra che non si può violentare la natura. Più che per criticare un capitalismo irrispettoso delle leggi, Salvini usa insomma la citazione per strizzare l’occhio ai No Tav e, in genere, ai nemici delle grandi opere.
Terzo libro: Un uomo, di Oriana Fallaci. E quindi tra i numerosi volumi della giornalista toscana, Salvini non privilegia il pur citato La rabbia e l’orgoglio, ovvero la Fallaci del dopo 11 settembre, ma il libro dedicato ad Alekos Panagoulis. Ovvero a un eroe della resistenza contro la dittatura dei colonnelli, impossessatasi del potere in Grecia nel 1967, e quindi a un’icona dell’antifascismo. Ma anche a un uomo tanto eroico quanto profondamente impolitico, un individuo isolato in lotta col potere.
Ma c’è anche un quarto autore citato da Salvini e si tratta, nientemeno, di don Lorenzo Milani che, nel 1965, pubblicò su “Rinascita”, il settimanale del Pci, un appello all’obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare. Come è noto, don Milani è un’icona del Sessantotto, ma Salvini cerca di impossessarsi dell’idea dell’obiezione di coscienza per usarla in campo fiscale. Insomma, in supporto di una progettata azione, di cui parla da tempo, volta a promuovere il rifiuto di pagare le tasse.
(seconda parte di una serie di articoli, qui il primo sulla coalizione ben poco padana di Salvini)